«Siamo e potremmo essere una terra nuovissima, come siamo, per moltissimi aspetti, una terra vecchissima, addirittura retrograda». Così scriveva Antonio Cirino – giornalista e studioso d’arte – nel suo celebre volume “Il Sottobosco”, a proposito del Molise. Era il 1965. E dunque, percorrendo il solco tracciato dai più ordinari luoghi comuni, sulle basi di quella caratteristica manifestazione dell’esprimersi – scritta o verbale che sia – fondata sull’illusoria quanto ingegnosa ricerca del consenso, ci troveremmo obbligati ad affermare: «Nulla è cambiato». Al contempo, prediligendo un approccio impersonale, un atteggiamento freddo ed imparziale tipico di chi, alla luce dei fatti, sceglie di riferirli con assoluta autenticità, ci parrebbe impossibile non assentire: «Nulla è cambiato». Sì, perché di fatto nulla è cambiato se dopo cinquantacinque anni un’intera comunità, con tentativi maldestri e a tratti compassionevoli, sembra riconoscersi e identificarsi, mostrarsi ed esaltarsi al grido di “Il Molise esiste”. Quasi se, rivendicare un’esistenza rappresentasse motivo d’orgoglio. Lo è di certo ma, evidentemente, non nel perimetro entro il quale taluni molisani sono soliti agire. La lotta, quella vera, per vedersi riconosciuti meriti, pregi e qualità non passa (soltanto) attraverso prelibatezze gastronomiche, dorsali appenniniche e personaggi più o meno celebri ai quali rifilare una qualche parentela locale; questa è la strada del compiacimento, della ricerca spasmodica di consenso, tracciata a più mani ma in assenza di menti. Sono passati cinquantacinque anni dalle parole di Cirino e, purtroppo, quel sottobosco da lui sapientemente descritto sembra continuare a vivere, alimentato quotidianamente da un vuoto siderale, da un “fare” disinteressato, dalla costruzione approssimativa e sfiduciante di teatrini stagionali, privi di logica programmatica, presbiti e stantii. Il Molise NON esiste perché tutti, indistintamente, abbiamo lavorato alacremente in questa direzione, contribuendo con le nostre azioni permissive ed omissive a sgretolare la nostra memoria. Di noi, non v’è traccia alcuna. Il Molise manca della sua stessa spina dorsale, non v’è sostegno ad un corpo molle e ormai cedevole, spogliato, sul piano intellettuale e morale, d’ogni strumento idoneo alla costruzione di una consapevolezza di sé. Sociale, storica o ambientale che sia. Chi siamo oggi e chi siamo stati, non è dato sapere. Campobasso è l’unico capoluogo di regione italiano a non avere un museo d’arte moderna e contemporanea, per citare solo un esempio dello sfacelo culturale in cui versa questa terra e per ricollegarci, in qualche modo, alle parole dello stesso Cirino che, cinquantacinque anni fa, ne scriveva nel suo libro con sdegno e desiderio di rivalsa. Lo stesso sdegno e il medesimo desiderio dei tanti artisti che, nel corso del tempo, hanno denunciato a più riprese questa inaccettabile condizione, auspicando soluzioni e, alle volte, ponendo a disposizione di molti la propria professionalità, nel tentativo di contribuire fattivamente alla costruzione di un progetto comune. Nulla è cambiato. Gallerie improvvisate hanno accolto centinaia di mostre in questi lunghi anni, esposizioni temporanee che, sovente, hanno contribuito ad arricchire anche il patrimonio di taluni enti locali della regione, attraverso lasciti e donazioni, praticate nella speranza che un giorno, non lontano, la città capoluogo avrebbe raccolto i suoi “tesori” in un unico, grande e decoroso ambiente, per condividerli con la comunità. Un museo, nient’altro che questo. Un museo che, a ragion veduta, avrebbe potuto accogliere anche le opere dei tanti molisani illustri formatisi fuori regione, conservate in archivi e depositi di accademie d’arte e gallerie civiche; un’ipotesi che, in alcuni casi, ha rischiato di tradursi in realtà, fino all’amara quanto imbarazzante constatazione di non avere un luogo dove ospitare e conservare stabilmente opere d’arte anche di un certo prestigio. Occasioni mancate che dovrebbero far riflettere ma che, all’atto pratico, si sono rivelate accorate declamazioni destinate a cadere nel vuoto. È questo il nodo cruciale della faccenda: la totale, assoluta, dispotica indifferenza all’argomento, una mancanza di volontà che, troppo spesso e colpevolmente, si è scelto di addebitare alla “politica”, lasciando trasudare superficialità e cinismo che, a ragionare coscienziosamente, dovremmo spartirci in egual misura.