Nella prima parte dell’intervista, Francesca ci ha raccontato della sua formazione professionale in Italia, delle ragioni che l’hanno condotta alla scelta di lasciare il suo Paese e della sua grande passione per l’arte, il motore trainante di questa vicenda. Ci siamo lasciati parlando dell’interesse che la Germania – paese di adozione di Francesca – nutre nei confronti delle nuove generazioni, puntando su attività inclusive e altamente formative. Da qui in avanti, il discorso si estende all’analisi dettagliata di alcuni aspetti relativi a questo argomento, dalla quale è scaturita una imprescindibile necessità di confronto con la realtà italiana (e molisana).

Cerchiamo di ampliare il nostro ragionamento. L’Italia è la culla della cultura occidentale, tutti lo riconoscono. Perché chi opera in questo settore in Italia non lavora?

Perché non si investe. Né a livello statale, né da parte di privati. Questi ultimi dovrebbero impiegare maggiori risorse, ma paradossalmente è lo Stato che non lo permette. Sono assolutamente d’accordo sul fatto che i siti storico-artistici e archeologici maggiori restino di gestione statale, non sono incline alla privatizzazione estrema, ma tale presupposto implica un incremento degli investimenti. I musei italiani, oggi, non hanno personale e con troppa frequenza si fa ricorso a forme di volontariato, spesso ad opera di over 60. Che senso ha, mi chiedo, mantenere attivi corsi di laurea in materie artistiche?

Gli italiani non godono, ahinoi, di ottima fama all’estero ma c’è un’eccezione e riguarda gli studiosi d’arte che provengono dal Belpaese. Me lo confermi?

Non so se confermare. Forse poteva essere vero in passato. La nostra formazione universitaria è molto diversa, di certo più ampia, studiamo tanto e tante cose diverse. Per i tedeschi, ad esempio, non è così: focalizzano l’attenzione su argomenti molto specifici, attraverso seminari, lezioni frontali. Noi abbiamo una preparazione, per così dire, a 360 gradi. Quello che hanno in più rispetto a noi, è la pratica e ciò dipende da tirocini realmente formativi. Per intenderci, qui nessuno si sognerebbe di accogliere un giovane tirocinante per fargli fare delle semplici fotocopie! Durante il mio tirocinio presso la Soprintendenza del Molise non mi è successo, ma sono stata fortunata… A ciò, si aggiunge un altro problema, ed è quello della conoscenza di lingue straniere. Gli italiani in questo sono indietro e rappresenta un limite oggettivo nella carriera accademica, e non solo.

Da molto tempo, forse per giustificare l’ingiustificabile, si tende ad affermare con estrema semplificazione che i giovani italiani non hanno voglia di lavorare. Cosa ne pensi?

Personalmente, pratico una distinzione: da un lato mi pare di scorgere persone animate da grande senso di responsabilità e voglia di realizzazione professionale che si scontrano, purtroppo, con reali e tangibili ostacoli di natura oggettiva; d’altro canto, non lo nego, ho assistito a scelte personali che non condivido affatto. Molti miei conterranei venuti qui in Germania, lo hanno fatto guidati dalla convinzione che, in un certo senso, il lavoro “dei sogni” gli venisse regalato. Non tutti sono disposti a fare la gavetta, a partire dal basso. Io l’ho fatto e lo rivendico con forza. Certo, non è stato affatto semplice, ma ho dovuto arrangiarmi all’inizio, facendo lavori d’ogni tipo per potermi mantenere.

Mi va di “stuzzicarti” un po’, adesso. Quindi ti chiedo: se ti proponessero, adesso, di tornare a lavorare in Italia nel tuo settore, accetteresti?

Mi dovrei trovare nella situazione… Io qui ho l’impressione di sentirmi un po’ più libera, lavoro con uno sguardo ad ampio raggio. In Italia si tende a focalizzare l’attenzione troppo sul circuito nazionale, dimenticando il dialogo che proprio il nostro paese ha avuto nei secoli con altre realtà. Quando si assumono persone che provengono dall’ estero, per fare ad esempio i direttori di musei, si sollevano critiche d’ogni genere e lo trovo davvero controproducente, oltre che anacronistico. All’estero è una cosa normalissima e potrei fare molti esempi. Davide Gasparotto è senior curator dei Dipinti del Getty Museum a Los Angeles, l’ex direttore del museo di Francoforte adesso lavora a New York ed è tedesco. È la prassi e nessuno ha nulla da obiettare. Questo atteggiamento è uno dei motivi che mi ferma nella ipotetica scelta di tornare in Italia. Poi, ormai, ho la mia vita qui. Ho costruito qualcosa, altrove: perché dovrei tornare indietro? Come farei a sradicare il mio compagno e mia figlia da qui? Se qualcosa poteva essere fatta, era necessario farla a tempo debito.

Ci stiamo girando attorno già da un po’ ma, a conti fatti, è (anche) di emigrazione che stiamo parlando. Che rapporto hai con questa definizione? Cosa significa per te questa parola, oggi?

L’emigrazione di oggi non si può comparare con quella di inizi Novecento o, ancora, con quella degli anni Sessanta che vide, fra l’altro, come destinazione privilegiata proprio la Germania post-bellica. Non sono certa che il termine “emigrazione” oggi sia ancora corretto da adoperare. Se mi attengo all’etimologia, l’immagine che velocemente si materializza è quella di persone disperate che si muovono in cerca di un lavoro. In realtà, questo spostamento oggi avviene all’interno dell’Unione Europea e, in un certo senso, appare più semplice anche per i mezzi a nostra disposizione: non ci sono più i confini ed è più facile spostarsi. La faccenda si complica quando ci si sofferma ad analizzare i soggetti in movimento. Spesso (soprattutto dall’Italia), sono giovani con formazione anche post-universitaria, quindi la competenza professionale è elevata e, conseguentemente, lo è anche la competizione sul mercato del lavoro. Succede che, paradossalmente – ne parlavo con un collega tedesco – l’Italia investe un patrimonio incredibile per la formazione di una persona ma questa, impossibilitata a trovare occupazione sul territorio, è costretta ad andare via. Io stessa, in Italia avevo contratti a progetto, quindi nessuna formula di lavoro stabile; lo desideravo fortemente, ma è stato quasi impossibile, anche per la mancanza di concorsi nel mio settore che rappresentano, inevitabilmente, l’unica chiave di accesso al mondo del lavoro. Sulle possibilità legate all’insegnamento preferisco non esprimermi affatto.

Come sei riuscita a farti notare, professionalmente, una volta arrivata in Germania?

Era febbraio del 2014quando misi il piede per la prima volta in Germania. Non avevo un lavoro, chiaramente, e come prima cosa ho dovuto rispolverare (dal liceo!) la mia conoscenza del tedesco; quindi mi sono iscritta ad una scuola per imparare la lingua e ho cominciato a fare diversi lavori per mantenermi. Una vecchia storia, se vogliamo: cameriera al ristorante, barista, servivo la colazione negli hotel e mi alzavo alle 5 del mattino. Anche trovare casa è stato difficile perché in Germania esistono delle regole molto rigide e se non hai un lavoro, è complicato ottenere anche un affitto; per fortuna ho trovato una persona che mi ha ospitato, altrimenti non sarebbe stato semplice. Sono stati mesi molto duri perché, a tutto questo, si sommava l’impegno della tesi di specializzazione, cui è seguita la presentazione del progetto di dottorato. Per mia fortuna, il progetto in questione è stato accolto anche senza che nessuno mi conoscesse perché, evidentemente, l’argomento si è rivelato interessante. A questa esperienza, si è sommata quella del tirocinio presso una galleria di Colonia e da quel momento in poi, quasi naturalmente, è arrivata la scelta di restare. Non c’era niente di programmato, molto all’avventura potrei dire e, con il senno di poi, non sono certa che lo rifarei! Scherzo, ovviamente. Se ripenso alla fatica dei primi mesi, forse oggi non avrei lo stesso coraggio ma in realtà ora sono molto felice della mia scelta.

Francesca, tu sei obiettivamente giovane. Lo eri quando vivevi in Italia e continui ad esserlo oggi in Germania. Credi che la parola “giovane” abbia lo stesso significato in questi due paesi?

In Germania essere “giovani” significa assumersi maggiori responsabilità. I tedeschi nascono e crescono cercando di essere indipendenti al massimo: lo vedo nelle scuole, dai più piccoli studenti ai diciottenni. Questo voler tendere alla responsabilizzazione si traduce, poi, in concrete possibilità lavorative per quei ragazzi che scelgono di non proseguire gli studi. Non tutti vanno all’ università, infatti, anche perché sono indispensabili dei precisi requisiti per accedere. Gli studenti possono scegliere di intraprendere la scuola professionale o l’università, quindi fin da subito si offre la possibilità di progettare il proprio futuro. Ecco, essere giovani in Germania significa poter godere di questa possibilità. In Italia – e non sono certo io a doverlo dire – andare all’università equivale, in tanti casi, ad assicurarsi qualcosa da fare per qualche anno… Sono due culture diverse. Trovo che i giovani italiani abbiano un grandissimo potenziale, siano altamente creativi, qualità che non trovo facilmente nei tedeschi perché sono più rigidi nella forma di pensiero.

Sei arrabbiata con il tuo Paese?

Lo ero, ora non più. È arrivata l’accettazione, serena, che cose sono andate così. Alla fine ho costruito il mio percorso qui. La rabbia non serve, non è costruttiva; l’ostinazione può essere utile. Sto realizzando qualcosa fuori dal mio paese: sono felice e con il tempo ho imparato ad accettare il mio rapporto di “amore e odio” con la Germania!  È stato difficile ambientarmi, sono stati anni complessi qui da sola, ma sono anche grata a questo posto che mi sta offrendo tante possibilità. Amici, famiglia e affetti li ho lasciati in Italia e questo è ancora il più grande peso da sostenere.

Il tuo compagno è spagnolo, tu sei italiana e vivete in Germania. Tua figlia ha tre nazionalità. Pensi che sia un vantaggio per lei?

Beh, in effetti Sofia è l’unica in famiglia ad essere tedesca! Il mio compagno è nato qui, ma non ha mai voluto la cittadinanza tedesca. Per lei è un indiscutibile vantaggio perché siamo in Europa ma, ancor più, siamo cittadini del mondo e le appartenenze nazionali le trovo ormai superate.

Torniamo in Molise e torniamo all’arte. Hai qualche riflessione a riguardo?

L’arte molisana va ancora scoperta. Per fortuna ci sono ancora molti studiosi come Tommaso Evangelista, Dante Gentile Lorusso e tu stessa, Silvia – per citare quelli che conosco meglio – che in qualche modo cercano e si adoperano tenacemente nel tentativo di contribuire alla ri-definizione dell’arte molisana. A differenza dell’arte medievale, gli studi sull’epoca moderna e, ancor più, su quella contemporanea non sono stati affatto esaustivi; i manuali scarseggiano e, per lo più, esistono contribuiti sottoforma di cataloghi e monografie. Una ricostruzione scientifica vera e propria, manca. C’è ancora molto da scoprire e da studiare.

Qual è il tuo artista molisano preferito?

Sicuramente Antonio Pettinicchi. Purtroppo le sue opere non sono considerate adeguatamente e sul mercato si potrebbe fare qualcosa in più, ma non si fa niente. Bisognerebbe puntare sull’approfondimento dei talenti locali, sulla divulgazione delle loro opere: così come siamo, il Molise rischia di veder cancellata la propria storia artistica. Lo trovo assurdo.

Fai riferimento, immagino, anche alla mancanza di un museo d’arte dedicato?

In Molise non abbiamo un museo d’arte moderna e contemporanea perché non interessa a nessuno. Bisogna cambiare mentalità, sarò ipercritica e poco simpatica, ma tanti molisani parlano e si atteggiano ma non sono mai entrati in museo. Lo so perché ho fatto la guida per diverso tempo e i visitatori che accoglievo, non erano quasi mai molisani. La mia opinione è che interessino di più le sagre di paese e meno le mostre, salvo quelle dedicate ad un nome “famoso”, al solo scopo di scattarsi qualche selfie e pubblicarlo su instagram! Io spero che il museo sulla nostra storia artistica diventi una realtà, è un’utopia, lo so, ma spero che qualcuno si svegli e si decida ad investire invece di sperperare risorse in promesse di lavoro o altro. Esistono anche dei fondi europei per poterlo fare! Sono anche progettista europea, non mi sono mai dedicata a questo tipo di lavoro, ma so per certo che si potrebbe presentare una candidatura specifica. Il problema è che nessuno lo fa! Ritengo sia molto grave anche perché lo stesso meccanismo è adoperato per altri scopi, quindi a mancare è solo la volontà.

Abbiamo chiacchierato tanto e, in ultimo, vorrei solo chiederti se c’è qualcosa che vorresti dire a qualcuno approfittando di questa intervista…

Vorrei lanciare qualche messaggio, sì. Innanzitutto, invitare chi di dovere ad adoperarsi per finanziare la cultura nella nostra regione; non mi riferisco esclusivamente al dato economico, ma anche a forme di supporto “morale”, nei confronti di tutte quelle persone che, nonostante le molte difficoltà, si adoperano per proporre eventi e iniziative. Penso, ad esempio, alle associazioni che lavorano tanto, e bene, sia a livello fisico che intellettuale.  Vorrei, poi, soffermarmi sulla faccenda della Biblioteca “Albino”, nella speranza che torni ad essere di nuovo accessibile a tutti. Io lì ci ho scritto le mie tesi di laurea, sono ancora molto grata al personale che vi era impiegato. Quel luogo custodisce i libri sulla storia del Molise, è un posto eccezionale. Ma penso anche all’archivio Lefra, per il quale mi sono spesa moltissimo quando vivevo in Italia. Ricordo che parlai con molte persone a riguardo, anche con il Presidente della Provincia, nel tentativo di veder riunita la collezione in un unico luogo, con idonee condizioni di conservazione. Questo discorso vale per tutti gli archivi storici, che sono fonte inesauribile di conoscenza e di cultura. Dimenticare questi luoghi equivale a uccidere la memoria della nostra regione. È gravissimo. Se si continuerà su questa strada, mancherà qualsiasi presupposto alla scelta di restare, di combattere e migliorare.