A gennaio non avevamo ancora contezza che ci saremmo ritrovati a vivere un periodo drammatico. Guardavamo con preoccupazione la Cina, epicentro della pandemia, ma con la sensazione che tutto fosse sotto controllo. Poi, l’incubo. 

Il 21 febbraio un uomo di 38 anni, un atleta, senza alcun legame con la Cina, residente a Codogno, un paesino di 15.000 abitanti a 60 chilometri da Milano, è stato dichiarato come il primo contagiato da coronavirus. Nessuno è riuscito a identificare il paziente zero e quindi il contenimento del virus è stato impossibile. Secondo gli esperti, il virus circolava nel paese transalpino da settimane senza che nessuno se ne fosse accorto, scambiato per influenza comune o trasmesso da pazienti asintomatici. “Quello che abbiamo chiamato paziente era probabilmente il paziente 200”, ha detto il virologo Fabrizio Pregliasco.

Domenica 23 febbraio, quando il numero ufficiale delle persone infette ha superato il numero di 130, il Governo ha ordinato la chiusura di 11 città in Lombardia e Veneto, dove vivono 50.000 persone e dove è stata registrata la maggior parte delle infezioni. 

Da allora il numero dei contagi e dei morti ha superato quello della Cina. “È la peggiore crisi che abbiamo vissuto dalla fine della seconda guerra mondiale”, ha riassunto il premier Conte. Le misure adottate sono sempre più restrittive per rallentare la pandemia che sta mettendo in ginocchio un sistema Paese.

Inizialmente, secondo Sandra Zampa, sottosegretario alla Salute, l’Italia non ha percepito l’esempio della Cina come un avvertimento, ma come the day after tomorrow “un film di fantascienza che non ci riguardava”. 

Il 27 febbraio, il leader del Partito Democratico, Nicola Zingaretti ha pubblicato sui suoi social un momento a Milano con amici durante un aperitivo. “Normalità. Non perdiamo le nostre abitudini”, si leggeva. Solo 10 giorni dopo, il numero di casi era salito alle stelle a 5.300 e più di 200 persone erano morte. Zingaretti ha nuovamente pubblicato un video sulle sue reti, questa volta annunciando che anche lui aveva contratto il virus. Un dietrofront, una sottovalutazione di quello che era lo stato delle cose. 

Quella stesso giorno, Conte decretò per  16 milioni di persone che vivono nella regione Lombardia e in altre 14 province del nord la famosa zona rossa. Due giorni dopo, l’11 marzo, con un’Italia ancora in stato di shock, il Governo estese la quarantena a tutto il territorio nazionale, chiuse tutte le attività che non rientrassero in beni e servizi di prima necessità.

Ancora lo ricordiamo tutti come appena accaduto quando Giuseppe Conte ha lanciato il messaggio chiaro “Io resto a casa. Manteniamo le distanze oggi in modo che possiamo abbracciarci più forte domani”.

E da allora sono trascorsi diversi giorni, ci sono stati i disobbedienti, i ligi al rispetto delle regole. C’è stato di tutto. Ci sono morti. Così tanti che l’Italia oggi, 30 marzo, ha difficoltà a quantificarli tra decessi sommersi e decessi dichiarati dagli ospedali. È un momento storico così particolare e delicato che avere una visione lucida e chiara è pressoché impossibile.

Domani, ci sarà il tempo per ripercorrere tutte le tappe. Con uno spirito critico molto probabilmente diverso. Ora non resta che la cruda cronaca di un periodo da cui ne usciremo cambiati.