di Lucrezia Cicchese

La cultura è progressivamente scomparsa dalla vita quotidiana ed è rimasta confinata nei luoghi preposti. Ed è così ridotta male che pure in quegli “spazi” è messa spesso all’angolo. È perennemente dietro le cose della vita quotidiana perché non considerata degna di attenzione dalla classe politica troppo presa dai soliti problemi di spartizioni di cariche e poltrone. E questo lo si avverte ancor più a livello locale. Anzi, è luogo comune farne “campagna elettorale” per poi costruire una solida azione di disinteresse mascherato da buoni propositi.

Basta riempirsi la bocca col termine “cultura” per esserne guru di un qualcosa dove, poi, le proposte sono al limite della decenza. Non serve far nomi. Chiunque professi e decanti virtù in Molise è ormai ritenuto poco credibile nel resto dell’Italia. Eh si, è ridotta così male perché in maniera diffusa (cittadini, istituzioni e addetti ai lavori) se ne ha una considerazione erronea sotto molti profili.

Come scriveva un attento Daniele Pitteri anni fa – e nulla da allora, 2012, è cambiato – viviamo tutti con il mito delle “tre balle” dove si decantano virtù e numeri che a conti fatti non rispecchiano la realtà. Se la macchina dell’industria culturale nel resto del mondo impatta sul Pil in modo considerevole, in Italia i numeri sono drammatici. Del resto le grandi Fondazioni oltre alla presentazione di sterili programmi per rendicontare ingenti finanziamenti pubblici non riescono a fare. E qui l’accento si sposta, dunque, sotto il profilo qualitativo dove l’elenco dell’errata considerazione è lungo.

Negli ultimi anni in Italia e di recente in Molise – perché arrivare prima sarebbe come commettere un delitto – la cultura è considerata solo ed esclusivamente una leva utile ad alimentare il turismo, quello sì improvvisamente divenuto un settore da tutti ritenuto strategico. Ma la cultura è un bene che deve servire in primo luogo alla cittadinanza. Deve generare un valore finalizzato ad accrescere il capitale culturale, che non è fatto solo di beni materiali, ma anche di beni immateriali. È ciò che permette di avere cittadini “educati” al bello, che leggono, visitano musei, vanno a teatro, concerti. Sono quelli che “spendono”. Se non si pensa a chi vive le città il rischio è la desertificazione culturale, etica e sociale. 

E poi, la composizione e il profilo della platea degli addetti ai settori culturali è cambiata. Tutti ora fanno cultura. Come definireste quel prezzemolino di turno che non riesce proprio a staccare con l’essere onnipresente, ma che di studi e percorsi prima accademici e poi reali a livello culturale non ne ha mai fatti? Mortificante per un settore ipoteticamente trainante per l’economia italiana (e ovvio molisana). E così vediamo che gli assessorati competenti continuano a interloquire con soggetti del genere e di strategie a medio lungo termine neanche a parlarne. L’importante è portare a casa “la pagnotta” – dice qualcuno – o qualche ospitata in tv.

E dunque finché non si prenderà in seria considerazione l’idea di “curare” la cultura con figure competenti e di dare attenzione ai territori poco si potrà fare. Il post covid diciamolo non ha insegnato nulla né dal punto di vista delle relazioni che culturalmente.

Abbiamo ancora del tempo, poco lo dobbiamo pur dire, per cambiare rotta.