Era il 18 maggio quando il Ministero dei Beni Culturali annunciava la riapertura dei luoghi della cultura statali in Italia. Una notizia annunciata a gran voce dal Governo che, a più riprese, ha sottolineato l’importanza dell’avvenimento, per via dell’impatto positivo che tale riapertura avrebbe avuto sul piano economico legato al settore turistico-culturale. Non un semplice annuncio: il Governo si è speso molto in campagne di sensibilizzazione (soprattutto social), volte ad incentivare le visite ai musei, accompagnate dall’immancabile hashtag #lemascherinenoncopronogliocchi. Un invito all’indirizzo dei tanti turisti italiani, protagonisti speciali di questa estate 2020 all’insegna del cosiddetto turismo di prossimità.

Sono trascorsi più di due mesi dall’annuncio del “via libera” alla riapertura ma, a conti fatti, la situazione non sembra essere delle migliori: molti siti di interesse culturale sono ancora inaccessibili al pubblico e quelli che, con gran fatica, sono riusciti a ripartire, lo hanno fatto in modalità ridotta, con orari dimezzati anche a causa della carenza di personale. Ad oggi, stando ai dati raccolti da associazioni o riviste di settore specializzate (il Ministero non ha diffuso nessun dato ufficiale) si stima che il 30% dei musei italiani sia ancora chiuso al pubblico; per avere maggior contezza della situazione, basti pensare che in due delle maggiori città d’arte italiane, Firenze e Venezia, questa percentuale sfiora l’80%. La restante parte, come detto, riesce a garantire solo qualche apertura settimanale, spesso su programmazione e, quindi, con orario più che ridimensionato.

Dov’è finito, quindi, il servizio pubblico essenziale così calorosamente etichettato dal nostro Ministro dei Beni Culturali? Perché i siti d’interesse culturale non riescono a garantire l’apertura al pubblico? Come mai la Direzione Generale Nazionale e lo stesso Ministero non sono in grado di rilevare e diffondere dati attendibili sulla situazione e, ancor peggio, sembrano viaggiare su binari paralleli non riuscendo nemmeno a mettersi d’accordo sul numero complessivo dei siti culturali statali presenti nel Paese?

Molte domande restano, ahinoi, senza risposta ma, con uno sforzo minimo, qualche considerazione la si riesce a fare in completa autonomia; questo sconcertante panorama ci offre la misura esatta del livello di interesse (e dunque di sforzi profusi a tal riguardo) rivolto al sistema culturale italiano, al patrimonio artistico e, dunque, anche al personale impiegato in questo comparto.

Sulle difficoltà legate alle riaperture, si rende indispensabile qualche chiarimento: i musei italiani (ma anche siti di interesse culturale a vario titolo) hanno gestioni molto diverse, non sempre statali, spesso comunali, spessissimo esternalizzate; i costi di di gestione sono molto alti (pulizia degli ambienti, pratiche conservative dei beni, stipendi del personale, etc) e un ruolo determinante per garantire la copertura di questi costi è assunto, evidentemente, dagli introiti derivanti dalla vendita dei biglietti o da servizi aggiuntivi, come visite guidate e bookshop; alcuni, quelli più prestigiosi, ricevono finanziamenti da parte di enti pubblici ma, purtroppo, spesso queste cifre non riescono a coprire la totalità delle spese da sostenere e, con preoccupante sistematicità, a rimetterci sono i dipendenti che non vedono accreditarsi lo stipendio. Questa spirale perversa ha innescato un altrettanto perverso sistema di reclutamento del personale: i volontari. Bene intesi, non si tratta di persone impiegate per l’accoglienza o la gestione di attività logistiche ma di personale qualificato per svolgere visite guidate ed educazione museale; professionisti con lauree e specializzazioni d’ogni sorta, non retribuiti in alcun modo, nella maggior parte dei casi giovani. Una scelta non casuale, è evidente, ma studiata a tavolino e strumentalizzata all’esigenza, che fa leva su concetti quale passione, opportunità, crescita, futuro.

Nessuna novità, è evidente, poiché questa è una condizione che si trascina da anni e che, proprio in quest’ultimo periodo, sembra mostrare deboli ma importanti segnali di cambiamento; un caso emblematico è quello di Ravenna dove il Museo Nazionale osserva orari ridotti proprio per la mancanza di volontari o, ancora, in Sicilia dove si stanno registrando grosse difficoltà nei principali musei della regione per via della carenza di organico e delle difficoltà riscontrate nel reperire personale disposto a lavorare gratis.

E’ davvero questa l’idea che il Governo ha di “servizio pubblico essenziale” quando parla di cultura? Per quanto tempo ancora saremo disposti a far finta di niente e ad accettare passivamente i continui soprusi all’indirizzo del nostro patrimonio storico e artistico? Affermare che, in fondo, non ce ne importa nulla sarebbe il gesto più nobile e leale da compiere, nel rispetto di una storia secolare il cui peso abbiamo dimostrato di non voler sorreggere.