di Alessandro Matticola

 

La pandemia da coronavirus ha messo in secondo piano alcune questioni cruciali a livello internazionale.

Una di queste è la Brexit.

Il 31 gennaio, la Gran Bretagna è uscita ufficialmente dall’Unione Europea e si è aperta una fase di transizione che ufficialmente terminerà il 31 dicembre, quando la Union Jack sarà ufficialmente libera dai vincoli di Bruxelles, ma a quanto pare restano pochi nodi da sciogliere.

Il coronavirus ha rallentato il precorso che comunque non è stato molto semplice. Su tutto, resta da stilare un accordo commerciale pronto per il 90%.

Eppure mai come in quest’ultimo periodo, il governo di stampo conservatore di Downing Street ha lanciato segni di non voler lasciare l’Unione. A cominciare dal licenziamento di Dominic Cummings, il factotum della campagna elettorale di Boris Johnson e di quella per la Brexit e al suo posto, come negoziatore, la nomina di David Frost che si interfaccerà in questa fase finale con Michel Barnier, negoziatore dell’UE. All’esterno del n°10 di Downing Street fanno sapere che tutto sta procedendo per il verso giusto e che non c’è nessuna volontà di fare marcia indietro.

Fatto sta che i tempi si stanno stringendo, l’accordo commerciale ancora non c’è e bisogna far presto. Il primo termine era stato fissato per il 15 ottobre, poi posticipato al 31 ed infine al 30 di novembre. Ad ogni modo, il giorno di San Silvestro dovrà essere tutto pronto.

Tre i punti ancora da chiarire tra Londra e Bruxelles.

Il primo, quello più semplice probabilmente, i diritti sulla pesca che rappresenta meno dell’un percento dell’economia britannica, ma la Francia vorrebbe continuare a pescare nel canale della Manica e le quote pesca non sono certo un punto da buttare via per Bruxelles. Poi ci sono le questioni relative agli aiuti di stato alle imprese e all’arbitrio in eventuali dispute future.

Il punto chiave su cui si basa buona parte della Brexit, è il raggiungimento di un accordo commerciale. La Gran Bretagna così come anche l’Unione Europea vuole mantenere flussi di merci senza distorsioni e Bruxelles sarebbe disposta a non istituire dazi se anche Londra si impegna a non effettuare dumping (vendere un bene a prezzi inferiori all’estero così da favorire l’economia interna). Da qui la possibilità di eventuali ricorsi ad aiuti di stato per le imprese.

L’altra grande questione poi è la Corte di Giustizia Europea, di cui Londra non ne farà più parte e per tanto bisogna capire chi può sopperire al suo compito per la Gran Bretagna. Ci sono poi delle questioni interne. Il mandato del giudice Christopher Vajda, scaduto il 6 ottobre 2018, è stato rinnovato per altri 6 anni con la clausola che avrebbe lasciato il seggio in caso di uscita della Gran Bretagna dall’Unione. Il mandato di Ian Stewart Forrester, giudice del Tribunale, è scaduto il 31 agosto dello scorso anno, ma è rimasto in carica in attesa che il successore prenda possesso delle sue funzioni. Stessa cosa per l’avvocata generale Eleanor Sharpston, che resterà in carica fino alla nomina del suo successore.

Stiamo lavorando per raggiungere un accordo, ma l’unico possibile è uno che sia compatibile con la nostra sovranità nazionale e con la ripresa del controllo sulle nostre leggi, del nostro commercio e delle nostre acque. Questa è stata dall’inizio la nostra posizione e non la cambierò” Questo il commento di David Frost all’inizio degli incontri con Michel Barnier di questa settimana.

Tutti si auspicano che si riesca finalmente a trovare la quadra del cerchio: i tempi stringono ed il rischio, quasi impossibile ma comunque probabile, è un’uscita “secca” della Gran Bretagna dall’Unione. Questa appena iniziata dovrebbe essere la settimana decisiva. L’ultima, almeno si spera.