di Antonio Di Monaco

In piena pandemia da Covid, troppi comunicatori delle istituzioni navigano fuori dal contesto pratico spesso lontano dalle problematiche reali. In particolare, gli organi tecnici quasi sempre trascurano l’apporto indispensabile di specialisti della comunicazione, li utilizzano come meri esecutori, producendo così dati “freddi” e poco comprensibili. I politici hanno contribuito alla confusione con inopportuni personalismi, introducendo elementi emotivi e di politica in ciò che dovrebbe essere solo tecnico e pragmatico.

Lo scorso 6 dicembre la Regione Molise ha avviato una campagna di comunicazione istituzionale sulla pandemia provocata dal nuovo coronavirus. Dunque, per informare correttamente i cittadini si affiderà agli organi di informazione locali. A questo scopo, la giunta guidata dal presidente, Donato Toma, ha deliberato lo stanziamento di 800mila euro. Fondi che consentiranno di “sostenere le imprese dell’informazione locale attraverso la concessione di un contributo legato alla messa a disposizione gratuita di spazi per campagne di comunicazione istituzionale su temi inerenti al Covid-19”. Bene, ad oggi, a quasi tre mesi di distanza, non è dato sapere dove siano finite quelle risorse.

In attesa che qualcuno si decida a svelare l’arcano, va ricordato che una qualsiasi attività di comunicazione, operata coi mezzi tradizionali o social media, anche bella e valida, è totalmente inutile, se non dannosa, se fuori da in un piano strategico che determini preventivamente modi, tempi e collocazioni opportune. In presenza di una pandemia che dura da quasi un anno con la fine solo largamente ipotizzabile, è necessaria una strategia di lungo termine, con ipotesi di variabili. La regola aurea comportamentale da seguire in questi casi è di non rassicurare troppo né intimidire.

Nella gestione italiana e, ovviamente, molisana della comunicazione del Covid-19, tale regola è stata totalmente disattesa. Una delle conseguenze, ad esempio, è che il messaggio ha fatto intendere che il problema dei decessi riguardava solo gli anziani, incentivando così comportamenti lassisti dei giovani. Sul piano vaccinale è stato detto in primavera, molto chiaramente, che i vaccini impiegano 15/18 mesi per essere sviluppati. Sono dati tecnici e non ipotesi. Pertanto, il messaggio principale da veicolare era quello di utilizzare al massimo la prevenzione per poter “convivere” almeno un anno con l’epidemia. Quindi doveva esserci un focus rigoroso su mascherine, distanziamento, disinfezione, senza divagazioni. Più cautela ben comunicata e fatta rispettare avrebbe provocato meno chiusure drastiche.

Altra rappresentazione che dura da mesi è il susseguirsi di norme nazionali e regionali, malfatte. Indicazioni poco chiare, scoordinate, spesso in conflitto tra loro, a volte spiegate malissimo, da chi dovrebbe renderle chiare e applicabili. Le interpretazioni sono lasciate ai tutori della legge costretti a soprassedere o reprimere, oscillando fra lassismo e rigore, con la politica dei lockdown “stop and go” in cui si tenta di addossare tutta la responsabilità ai cittadini degli assembramenti nelle piazze, oscurando le manchevolezze di chi è tenuto a controllare e gestire il movimento delle persone.