di Alessandro Matticola

 

Amo la cultura pop: i Rolling Stones, i Doors, David Lynch, questo genere di cose. Non mi piace ciò che è elitario. Amo i film del terrore, Stephen King, Raymond Chandler, e i polizieschi. Ma non è questo ciò che voglio scrivere. Quello che voglio fare è usarne le strutture, non il contenuto. Mi piace mettere i miei contenuti in queste strutture. Questa è la mia via, il mio stile. Perciò non piaccio né agli scrittori di consumo né ai letterati seri. lo sono a metà strada, e cerco di fare qualcosa di nuovo. […] Scrivo storie strane, bizzarre. Non so perché mi piaccia tanto tutto ciò che è strano. In realtà, sono un uomo molto razionale. Non credo alla New Age, né alla reincarnazione, ai sogni, ai tarocchi, all’oroscopo. […] Ma quando scrivo, scrivo cose bizzarre. Non so perché. Piú sono serio, piú divento balzano e contorto” (The Salon Magazine, 16/12/1997)

E per quanto riguarda la presentazione di Haruki Murakami non c’è altro da aggiungere oltre le sue stesse parole, seppur datate.

Si, perché in effetti Haruki Murakami è un fantasma. Non appare quasi mai in pubblico, parla pochissimo, non si espone e non si fa vedere.

Murakami è uno dei più grandi esponenti della letteratura orientale contemporanea, insieme ad altri giganti come Banana Yoshimoto (“Sonno Profondo” Feltrinelli 1994, “Presagio Triste” Feltrinelli 2003) e Kazuo Ishiguro (“Quel che resta del giorno” Einaudi 1990). Ed uno dei personaggi più poliedrici della cultura dei giorni nostri.

Si sa poco di lui se si sta a guardare solo a ciò che dichiara, ma trapela molto della sua vita se si ha la fortuna di poterlo seguire.

Haruki Murakami è un fantasma girovago. Scompare da un giorno all’altro senza lasciare traccia e lo ritrovi dall’altra parte del mondo.

Nasce a Kyoto il 12 gennaio del 1949, all’inizio del boom economico giapponese post conflitto mondiale. I genitori sono entrambi insegnanti, il padre in particolare insegna letteratura. Il nonno era un monaco buddista. Si iscrive all’università di Waseda, a Tokyo, nel 1969, si laurea nel 1975 in Lettere dopo un percorso non poco travagliato. Haruki è un ribelle. Torna al dormitorio ubriaco portato dalla polizia e si fa cacciare. Partecipa attivamente alle rivolte studentesche. Insomma, uno spirito libero, come d’altronde lo sono tutti i geni al suo pari.

Nel 1971 sposa Takahashi Yōko, insieme alla quale aprirà nel 1974 “Peter Cat”, un bar che di giorno è una caffetteria e di sera diventa un night dove si suona jazz e si beve whiskey, il tutto grazie ad un muto e al lavoro dei due in un bar di sera ed in un negozio di dischi la mattina. Per un anno lascia anche l’università: non gli interessa la letteratura e si dedica solo alla musica.

Sarà solo nel 1978 che inizierà a scrivere. “Ascolta la canzone del vento” uscito nel 1979 e “Il flipper del ‘73” uscito nel 1980 vincono premi a cascata. Nel 1982 sarà la volta di “Sotto il segno della pecora” che insieme ai due romanzi precedenti forma la Trilogia Del Ratto, il nome del protagonista dei tre libri.

Già in questi primi tre volumi, emerge lo stile che lo accompagna ancora oggi e che gli dà la potenza – perché di potenza bisogna parlare – di spaziare dalla narrativa, alla saggistica, alla fantascienza fino al dramma, al giallo e al noir sempre con la stessa intensità.

Prendiamo ad esempio “Il flipper del ‘73”. Il Ratto è preso dal flipper con cui giocava da ragazzo. La sua attività di traduttore non lo soddisfa. Passa le giornate di fronte alla pallina d’acciaio che fa su e giù per il piano, spinta dai bracci, a totalizzare punti mentre pensa al suo passato da studente, le lotte, le ragazze. È un mondo “vaporoso”, intangibile, quello che gli scorre intorno. Preso dal flipper i personaggi compaiono e scompaiono senza neanche rendersene conto. Come le due gemelle. Non si conosce il loro nome, se le ritrova in casa, vivono con lui e poi scompaiono di colpo.

Ogni romanzo di Murakami è un rapimento perfetto. Ti ritrovi immerso nel racconto senza accorgertene, tanto da perdere il senso del tempo, l’orientamento, la percezione della realtà.

La tranquillità post laurea di Murakami dura appena 6 anni dopo la stesura del primo romanzo. Tra l’84 e l’86, dopo aver venduto il bar, si trasferisce a Fujisawa nella prefettura di Kanagawa, poi a Sendagawa nella prefettura di Tokyo ed infine ad Oiso, di nuovo nella prefettura di Kanagawa.

Ma il Giappone non gli basta più. Inizia a girare il mondo.

Nel 1986 si trasferisce in Grecia, l’anno dopo in Sicilia poi a Roma dove nasce quello che è il suo capolavoro, “Norwegian Wood. Tokyo Blues”, un romanzo di formazione che riprende il titolo di una canzone dei Beatles. L’opera ripercorre la storia di Watanabe, le sue amicizie controverse, i suoi amori difficili con Midori e Naoko, la decisione di prendere una strada ben precisa. “Norwegian Wood”, come accade per tutti gli altri romanzi di Murakami, ti rapisce appunto. Resti scosso dalla vita di Watanabe, ne diventi partecipe tuo malgrado, sei costretto a vivere la sua storia. Ti ritrovi catapultato nei panni di un corpo che non è il tuo, a vivere una storia che non è la tua e ne diventi protagonista. Sei lì, presente. Nei dormitori, nei bar, al chiaro di luna.

Sempre in Italia, scriverà “Dance Dance Dance”. “Norwegian Wood” è un romanzo di formazione, il suo successore è esattamente l’opposto. È la continuazione di “Sotto il segno della pecora”, ma resta un romanzo a sé. Il giornalista freelance del primo romanzo, di cui non si conosce il nome, si ritrova ad indagare tra omicidi inspiegabili, persone che lo lasciano andare alla deriva e incontri casuali. Tutto ha un senso, basta non fermarsi mai e continuare a ballare.

Nel 1991 è la volta degli Stati Uniti, dove diventa prima ricercatore poi docente all’Università di Princeton e due anni più tardi a Santa Ana, in California. In questo periodo pubblica “A sud del confine, a ovest del sole”. Ancora una volta il passato che ritorna, ma questa volta in una chiave molto autobiografica. Poi, tra il 1994 e il 1995 “Underground”, saggio sull’attentato della metropolitana di Tokyo e il complesso “L’uccello che girava le viti del mondo”, un’opera in tre volumi che mescola la narrativa drammatica con la fantascienza. La storia di un uomo che viene lasciato dalla moglie e l’improvvisa scoperta di un mondo parallelo dov’è convinto di ritrovarla.  E ancora “La ragazza dello Sputnik”, dove il piano della narrazione non cambia dal punto di vista della tematica ma finalmente cambia il protagonista: non più un uomo ma una ragazza, sempre enigmatica e piena di mistero.

A dieci anni dall’approdo nel paese a stelle e strisce, decide di tornare a casa e nel 2001 quindi si trasferisce di nuovo a Oiso.

È dopo il ritorno in patria che scrive quella che probabilmente è la sua opera più grande e più complessa, 1Q84.

Con un chiaro riferimento a 1984 di George Orwell nel titolo, la vicenda si snoda tra 3 volumi che si intrecciano tra il noir, il giallo e la fantascienza. In una Tokyo dei giorni nostri, una spietata assassina compie delitti a raffica per vendicare le donne vittime di violenza. Non fa danni, non fa rumore, nessuno si accorge di lei. Miete le sue vittime facendole apparire come morti naturali. Dall’altra parte, un giovane insegnante di matematica amante della letteratura, riceve l’incarico di correggere la bozza di un romanzo di una misteriosa scrittrice molto giovane. Due storie che corrono in parallelo, indipendenti l’una dall’altra. Fino a quando, una sera qualsiasi, i due protagonisti si accorgono che in cielo ci sono due lune.

Un’opera magistrale, da leggere tutta d’un fiato. Così come l’ultimo romanzo dello scrittore nipponico, meno complesso ma non meno intrigante.

L’assassinio del Commendatore”, opera in due volumi pubblicata tra il 2017 e il 2019, è la storia di un ritrattista che viene lasciato dalla moglie che lo ha tradito. Solo, senza una posizione da prendere, lascia tutto e continua il suo lavoro isolato in mezzo ai boschi, a casa del padre di un amico, dopo che questo è stato portato in un ospizio. Il nostro protagonista ha un dono, quello di riuscire ad intuire i segreti che si nascondono nelle persone che ritrae. Fino a quando, in questa enorme casa nei boschi tra le montagne, gli viene commissionato un ritratto da uno sconosciuto che non si presenta e non si fa vedere in faccia. Da lì capisce che le sue scelte, dall’aver lasciato la casa dove ha abitato all’accettazione di dipingere il ritratto dello sconosciuto, non avranno ripercussioni solo su sé stesso.

L’ultimo lavoro di Murakami è uscito a novembre dello scorso anno, una sorta di autobiografia, se così si può definire. In “Abbandonare un gatto”, l’autore nipponico racconta la sua vita. Finora non si era saputo nulla di lui. Un fantasma appunto, come d’altronde resta ancora oggi. In questa autobiografia inizia a parlare di sé, partendo da un ricordo non poco traumatico di lui insieme al padre, durante la sua infanzia.

Haruki Murakami, come ho affermato più volte, è un fantasma. E come un fantasma ti rapisce, si impossessa di te e non ti fa dormire, ma non in senso negativo. Qui è il genio dell’autore nipponico: la sua unicità nel saperti trasportare in un mondo parallelo tanto da restarci dentro e non volerne più uscire.