di Alessandro Matticola

 

Alla lettera, il nome potrebbe tradursi in “Chiaro di luna”. Deriva dal danese, paese d’origine della bassista Victoria De Angelis e prima fondatrice della band insieme a Damiano David.

I due si conoscono alle scuole medie. Poi per un po’ si perdono di vista e si ritrovano nel 2015. A loro due si aggiunge Thomas Raggi alla chitarra, che frequenta le medie insieme a Victoria e con un annuncio su Facebook – quando non era ancora il marasma del tutto e niente che è diventato oggi – riescono ad ingaggiare anche Ethan Torchio.

Questo è l’inizio dei Maneskin, la band vincitrice dell’ultimo festival di Sanremo. Fino a 30 anni fa le band si formavano allo stesso modo. Non esisteva Facebook, ma i giornali e gli annunci per strada. Ma la procedura era la stessa: scuola, amici in comune, annunci sparsi qui e là.

E poi i veglioni della scuola, le serate a casa di amici, feste, se ti va bene qualche palco di periferia e soprattutto – la parte più romantica di tutte – garage impolverati, umidi e piedi di muffa, i più audaci con i cartoni delle uova ai muri come nelle radio libere, amplificatori col volume a palla e i soldi messi da parte per i pedali da sparare a manetta, lo strumento migliore per fare il “figo” o qualsiasi altra cosa che potesse tornare utile.

Da lì, da un gruppo di ragazzini romani di 15 anni che suonava per racimolare qualcosa ai lati di Via del Corso, nasce quello che si spera, riporti un po’ di ordine nella musica italiana ormai infestata da “prime donne” che comprano un pc, ci trovano sopra un programmino un po’ più particolare che tira fuori dei suoni che piacciono, li mettono insieme, ci sputano sopra parole a caso condite da parolacce e robe che rimandano a droga e sesso per fare i tosti, già che ci siamo ci aggiungiamo qualche rutto e qualche scoreggia (perché la maggior parte di questi individui si riducono a questo alla fine dei conti) ed il gioco è fatto.

In Italia siamo sempre stati bravi a prendere il marcio e farlo diventare oro. Eppure, ne ho parlato qualche tempo fa, la Trap era nata per altro. Ma siamo riusciti a rovinare anche questo genere tanto da farlo odiare.

Il rock non è mai morto, sono state le case discografiche a volerlo mettere in soffitta prima di accorgersi che, come un impasto, è lievitato fino a strabordare e non si erano accorti di niente.

Costringevano le radio a trasmettere musica insulsa, priva di ogni significato perché oramai è la logica del mercato. Ma come ogni movimento di sottofondo, è riuscito ad emergere. Grazie a chi ha detto no alla musica liquida, a chi continuava ad ascoltare le radio relegate allo streaming e alle ultime frequenze oppure a quelle vicino alla radio della Rai che oramai ascoltano in pochi, a chi ha continuato a comprare i cd e poi i 33 giri ed i giradischi.

I Maneskin hanno imposto lo stop a tutto questo. I Maneskin hanno dimostrato che c’è chi dice no a Spotify non a parole ma con i fatti, che c’è chi mette da parte i soldi per comprare un disco nero di vinile a fine mese, al compleanno o appena raggiunge la cifra, uno di quelli con i solchi invisibili calcati dalla puntina e che ti restituisce il suono in alta definizione. Oppure, se il desiderio è tale da non poter resistere, va bene anche il formato più piccolo, quello argentato e riflettente.

Dalla strada il gruppo passa ai contest scolastici. Ne vincono uno, il “Pulse – High School Band Contest”. La vittoria permette loro di partecipare al MEI – Meeting delle Etichette Indipendenti di Faenza, una manifestazione che susciterà non pochi ricordi a chi sta leggendo in questo momento e ascolta certa musica.

Li nota Manuel Agnelli, che conosce la MUSICA, la suona da 30 anni e la sa riconoscere. E nella sua criticatissima partecipazione ad X Factor Italia, proprio per la musica che suona, sceglie loro. Non vincono, arrivano al secondo posto, ma la partecipazione al talent li porta alla ribalta delle classifiche. Finalmente per radio non passano più solo vocalizzi lamentosi di innamorati persi e amori finiti. “Chosen”, il primo singolo (in inglese “faffigo” sempre), è un successo clamoroso. Poi la conferma con “Morirò da re” e l’apoteosi con “Torna a casa”, la storia della famosa Marlena.

Dopo la pandemia tornano con “Vent’anni”, ma l’Italia è anestetizzata dal coronavirus, c’è ben altro a cui pensare. Ci penseranno loro a dare una scossa al paese. Lo fanno imponendosi a Sanremo, dove si capisce che la gente ha bisogno di tornare a vivere. Basta con i lamenti, i pianti e le romanticherie. Basta con i brani tipicamente “sanremesi” di Francesco Renga (che declino dai tempi dei Timoria), Arisa, Annalisa ed Ermal Meta. Anche Max Gazzè oramai non ha più nulla da dire, in questo festival poi ancora meno. Stanchi anche degli strilli come quelli di Aiello: potrà dare fastidio, ma accendendo la radio noterete che non passa musica tanto diversa. Un Sanremo da cui ci si aspettava qualcosa di più e per fortuna così è stato.

Achille Lauro ha messo in scena uno show ogni sera, definendosi il rock. Mi dispiace mio caro, il rock si fa con i fatti, non con le parole e non basta una storia difficile alle spalle, un abbigliamento più sgargiante e le telecamere addosso per raccontarsi a fare la differenza: non è una storia diversa da tante altre di persone che con la musica, hanno saputo imporsi ma in silenzio, partendo dal basso e scalando la vetta senza mettersi in mostra, senza urlare, facendo il loro.

È la fine di un’altra realtà: quella dei “poser”. Quella dei personaggi di facciata, dei fighi da copertina, dei “belli e dannati” per attirare l’attenzione. I Maneskin hanno perso X Factor, tutto il resto è stato frutto del loro lavoro.

Ed infatti, ancora oggi sono più loro a far discutere degli abiti e delle provocazioni stravaganti di Achille Lauro (personaggio molto diverso alle origini della sua carriera artistica e che meritava di essere seguito), che sono morte dopo il festival, facendolo tornare nell’ombra.

C’è un ultimo aspetto che vorrei sottolineare prima di concludere. La musica non ha colore e soprattutto, è unisex. Non è uomo e non è donna, tanto meno il rock. Ma i Maneskin mantengono una tradizione in rosa: quella delle bassiste. C’è Kim Gordon dei Sonic Youth; la rossa Melissa Auf Der Maur, già componente delle Hole e degli Smashing Pumpkins in cui milita un’altra grandissima bassista, D’Arcy Wretzky. In Italia la guardia viene tenuta alta dalla mitica Roberta Sammarelli dei Verdena, la compianta Elisabbeta Imelio dei Prozac + (scomparsa esattamente un anno fa). E tra tante altre – Alessandra Contini de Il Genio e Jessica Morlacchi dei Gazzosa per citarne altre fuori dal rock – c’è anche lei, Victoria De Angelis, che sul palco dell’Ariston dopo la proclamazione si lasciata letteralmente andare, com’era giusto che fosse.

Il rock fa ancora rumore, fa ancora discutere, come avveniva per il grunge negli anni ’90, per il metal negli anni ’80, per l’hard rock degli anni ’70 e per i primi gruppi che proponevano musica più pesante negli anni ’60.

C’è un altro gruppo che ha vissuto la stessa storia dei Maneskin e che, come loro, sta attirando l’attenzione e le ire di tanti appassionati. Quattro ragazzi di Frankenmuth, nel Michigan, innamorati del rock e dei Led Zeppelin, formano una band prendendo il nome di una loro concittadina e stilizzandolo con il font del titolo della serie Netflix “Stranger Things”. Sono fan dei Led Zeppelin ed il frontman, Josh Kiszka, ha una praticamente identica a quella di Robert Plant. Sono i Greta Van Fleet e per la loro fama di essere la falsa copia della band di Plant e Page si sono fatti strada nel mondo del rock. Ci hanno provato, ci sono riusciti. Copiano i Led Zeppelin? Lo sanno fare e anche bene.

Allo stesso modo, i Maneskin hanno iniziato ad attirarsi le ire dei perbenisti e dei puristi del rock. L’ultima polemica sul fatto di aver cambiato il testo di “Zitti e buoni”, il brano vincitore a Sanremo, sostituendo le parolacce in vista della partecipazione all’Eurovision Song Contest. Se lo avesse fatto qualcun altro non ci sarebbe stato nessun problema. Se ci fosse stato il De Andrè o il Dalla di turno a cambiare i testi li sarebbe andato tutto bene, la colpa sarebbe stata del sistema. I classici leoni da tastiera che si erigono a professoroni.

Anche loro ci hanno provato, anche loro ci sono riusciti. I Maneskin fanno MUSICA, che piaccia o no, quella con gli strumenti e non con i suoni campionati. I Maneskin fanno rock. I Maneskin sono rock. Punto.