di Miriam Iacovantuono

Le immagini che giungono dall’Afghanistan ci mostrano il dramma che centinaia di migliaia di persone stanno vivendo. Un dramma che sembra non avere fine. Dolore, lacrime, paura, terrore e sacrificio.
Secondo i dati dell’UNHCR – come riporta il sito Refugees-Welcome Italia – da fine maggio, circa 250.000 persone sono state costrette a lasciare le loro case, a cui si aggiungono i circa 2,9 milioni di afghani già sfollati nel Paese. Secondo l’organizzazione quello che ora è necessario è l’attivazione di corridoi umanitari che permettano di evacuare tutte le persone più a rischio: coloro che, negli anni, hanno collaborato con istituzioni, eserciti, media occidentali, ma anche donne, minori, persone anziane, appartenenti a gruppi, comunità, etnie invise al nuovo governo.
Ad oggi sono oltre tre mila le persone che dall’Afghanistan sono arrivate in Italia che si sta mostrando accogliente e solidale così come anche il Molise dove sono giunti 64 afghani ancora fermi nei centri di prima accoglienza.
Il Presidente di ANCI Molise, Pompilio Sciulli, ha spiegato che si sta facendo la ricognizione per capire quali sono i comuni che si rendono disponibili per accogliere i profughi afghani.

“Stiamo facendo una ricognizione con i comuni per vedere dove c’è disponibilità di strutture destinate a ricevere queste persone. I comuni che vogliono accogliere ci sono, così come anche le strutture, per l’accoglienza, però, non occorre solo un luogo fisico, ma anche figure professionali. Queste persone che arrivano hanno bisogno di assistenza, di psicologi e altro. Si sta quindi cercando di reperire anche queste figure, perché nel momento in cui si dà la disponibilità deve essere in toto e l’accoglienza deve essere a 360 gradi, includendo figure professionali che tutelino queste persone”.

Tra le prime comunità molisane a dirsi disponibile all’accoglienza dei profughi afghani c’è quella di Macchiagodena, dove il sindaco Ciccone e la sua amministrazione, da subito, ha avviato le procedure per poter accogliere nel comune almeno una famiglia afghana.

“Posso confermare la nostra disponibilità a mettere a disposizione della Prefettura l’alloggio che abbiamo già deliberato e già arredato. Se dovesse necessitare, abbiamo a disposizione anche un ulteriore alloggio”.

Per Macchiagodena, poi, sarebbe un’esperienza che si ripete.

“Come comunità abbiamo già ospitato i migranti in due strutture CAT dove abbiamo avuto contemporaneamente fino a 50 persone. E la popolazione ha risposto abbastanza bene e non ci sono stati grossi problemi alla presenza di questi ospiti nelle strutture e più di qualche ragazzo è rimasto in zona”.

Un discorso quindi anche di nuovi residenti per delle piccole comunità che vedono più persone andar via piuttosto che arrivare e restare. Un punto di partenza potrebbero essere i piccoli numeri per immaginare la possibilità di accogliere, ospitare e far integrare chi viene da paesi martoriati dalle guerre e dalle persecuzioni. In questo caso si tratta poi di persone, di profughi afghani, con alte professionalità, che conoscono la lingua italiana e che potrebbero essere inseriti lavorativamente anche in altri ambiti come per esempio proprio nelle strutture di accoglienza o in enti.
Il discorso che viene fuori è che si potrebbe immaginare un futuro diverso, non solo per queste persone, e in questo caso i profughi afghani, ma anche per i territori che si sono resi disponibili ad ospitarli. Nuovi residenti con una integrazione che parte dal basso. Non un’accoglienza di massa e concentrata in pochi centri, ma suddivisa in diversi centri dove andare incontro alle esigenze di chi arriva diventa più facile e ancora di più con dei progetti ancorati al territorio con cui sarebbe fattibile creare accoglienza e integrazione.
Ma questo tipo di discorso, che oggi facciamo per i profughi afghani, andrebbe esteso anche per i migranti. Bisognerebbe per questo ragionare su un’accoglienza che superi la logica dell’emergenza dovuta all’arrivo di flussi migratori non programmati o attesi sul territorio specifico e ragionare su quelle buone pratiche come i corridoi umanitari che sono un programma sicuro e legale di trasferimento e integrazione in Italia rivolto a migranti in condizione di particolare vulnerabilità o persone segnalate da organizzazioni umanitarie quali l’Alto Commissariato dell’Onu per i Rifugiati.

L’accoglienza e l’integrazione andrebbe così nel tempo e a piccoli passi a scalfire anche quel fenomeno che si sta sempre di più radicando nei territori delle aree interne e che è lo spopolamento. Le “nuove” famiglie diventerebbero parte integrante di una piccola comunità dove la nuova vitalità potrebbe essere la presenza dei bambini, che vanno così a ripopolare le vie del paese, e di nuovi residenti che vanno ad accrescere anche il numero dei partecipanti alle attività messe in campo in quel territorio.
Si può così immaginare di tornare a (ri)vedere le vie di un piccolo paese animarsi di nuovo, con i più piccoli che giocano a pallone per strada. Riaprire le biblioteche del luogo e riprendere in mano quei libri ormai impolverati perché non c’era quasi più nessuno a sfogliarli. E che importa se la loro cultura è diversa, se portano un velo in testa o hanno la barba lunga, se la pelle dei bambini è color cioccolato. Quello che invece è fondamentale è che piccoli gruppi di migranti o profughi possono dare nuova vita a quel territorio rurale che rischia di essere terra di spopolamento. Gli arrivi, se ben gestiti e ben organizzati in base al numero degli abitanti e con dei progetti mirati di integrazione, possono essere la linfa di un cambiamento possibile.