di Lucrezia Cicchese

Quando il paziente numero 1, da Codogno, è stato catapultato sulle cronache di tutto il mondo, in Molise si viveva nella bolla “mai arriverà fin qui il covid”. Non bastasse, in Molise, l’ha fatta da padrona un’incapacità istituzionale senza precedenti. E niente sono servite la solidarietà e le raccolte benefiche davanti alla verità: la sanità era letteralmente saltata. Un tuffo nel passato. E mentre l’ASReM (come quasi tutte le Asl di Italia) saltava, qualcosa – seppur timidamente – iniziava a prendere forma. Una nuova consapevolezza e la necessità di invertire rotta fino a giungere al tanto decantato e osannato PNRR e alla riforma che la pandemia potrebbe lasciare: l’avanzata delle Case di Comunità e degli Ospedali di Comunità.

Dei 7 miliardi che la Missione 6 del PNRR mette sulle reti di prossimità, 2 miliardi saranno investiti per attivare 1288 case di comunità entro metà 2026. Vi opereranno team multidisciplinari di medici di medicina generale, pediatri di libera scelta, medici specialisti, infermieri di comunità, altri professionisti della salute e potrà ospitare anche assistenti sociali nell’ottica dell’integrazione tra la componente sociale e quella sanitaria assistenziale. Un altro miliardo è previsto per la realizzazione di 381 Ospedali di Comunità per interventi a bassa intensità clinica con degenza di breve durata.

Il Covid ha dato il là al legislatore governativo di mettere mano alla riforma sanitaria: diffusione delle Case e degli Ospedali di Comunità. Come vede Patrizia Manzo questo orientamento del governo in Molise?

Questa soluzione è quella che ho promosso a livello istituzionale, con di certo maggiore enfasi nel drammatico periodo dell’emergenza pandemica. Negli anni solo disattenzione politica e conseguente assenza di dibattito nei confronti del tema che è esploso negli ultimi 24 mesi quando è stato evidente che la medicina territoriale avrebbe potuto sopperire ad alcune necessità ed entrare in supporto degli ospedali che, congestionati dai ricoveri, non hanno potuto garantire prestazioni allungando le lista d’attesa. Quello di cui abbiamo avuto sempre bisogno e che oggi è inconfutabile è una sanità più a portata di cittadino e più vicina al territorio, che miri a tutelare le persone fragili che vivono in condizioni cliniche precarie o in situazioni di inadeguatezza socio-economica e che si attivi nel momento in cui il paziente, in fase immediatamente post-critica, si trasferisce dall’ospedale al territorio. Purtroppo, quando si parla di medicina territoriale, rilevo una certa opacità e sempre più spesso si tende a confonderla, oserei dire surretiziamente, con la rete ospedaliera. Sono due differenti ambiti della programmazione sanitaria che affrontano con approcci diversi il medesimo obiettivo, la salute del cittadino”.

È possibile in una regione con una sanità privata accreditata e destabilizzante realizzare nel pubblico quel case management per il paziente?

“Quando parliamo di privatizzazione pensiamo sempre agli unici due grossi privati che offrono servizi di eccellenza, ma che gravano sulle casse regionali in quanto anticipiamo fondi di cui non disponiamo. Problemi arcinoti che tendono ad oscurare la pluralità delle aziende più piccole, ma disseminate sul territorio, che esercitano la propria professionalità garantendo a migliaia di cittadini molisani quei servizi che gli ospedali oggi non riescono ad erogare. Il privato è libero, nella sua attività di impresa, di offrire le migliori prestazioni ma noi, come ruolo politico, dobbiamo fare in modo che la privatizzazione non sostituisca il pubblico ma sia garanzia di una offerta qualitativamente migliore. Oggi il cittadino è obbligato a scegliere la sanità privata perché il pubblico non garantisce la stessa eccellenza non per la qualità dei professionisti che lavorano nei nostri ospedali, sia chiaro, ma per la cronica carenza di professionalità, di tecnologia avanzata, di attrezzature mediche degne di questo nome, di spazi confortevoli. E questo è il vulnus da risolvere. Le due strade, pubblico e privato, devono essere percorribili nello stesso modo e devono condurre allo stesso obiettivo. Poi il cittadino sceglie liberamente quale percorso affrontare. La salute è un diritto non un privilegio che qualcuno si può permettere. Per questi motivi ritengo sia doveroso realizzare nel pubblico tali strutture perché la finalità di interventi simili, come è evidente, è quella di migliorare la continuità assistenziale, evitando difficoltà ed interruzioni dei processi di cura ed assistenza nei confronti di utenti multiproblematici e non autosufficienti sotto il profilo socio-sanitario. Il case management, così come da definizione, è un processo collaborativo di accertamento, pianificazione, facilitazione, coordinamento delle cure, valutazione ed advocacy delle scelte e dei servizi, che agevolino i bisogni sanitari generali dell’individuo e della famiglia, attraverso la comunicazione e le risorse disponibili, per promuovere outcomes di qualità, con un buon rapporto costo-efficacia. Il che significa creare anche nuove figure professionalità e opportunità di lavoro sul territorio come l’infermiere di famiglia”.

Non solo, ma in una regione in cui non vengono rispettati i Lea potrebbero essere le case di comunità una soluzione?

“Faccio un esempio concreto, per risponderle. Nel 2017 lo Stato ha aggiornato i livelli essenziali di assistenza. Nel nuovo elenco è inserita anche l’endometriosi con la previsione di nuove forme di tutela a seconda della gravità della patologia. Tuttavia in Molise, così come la Regione – solo qualche giorno fa e dopo essere stata sollecitata – mette nero su bianco in risposta ad una mia interrogazione, “il Piano di rientro dai disavanzi del settore sanitario regionale ha impedito, di fatto, l’erogazione di prestazioni ulteriori rispetto a quelle previste dai precedenti LEA definiti con DPCM del 29 novembre 2001”. Il che significa che è un problema economico, lo stesso che grava sulle nostre spalle ormai dal 2007. Lo stesso che costringe ogni molisano ad un debito di mille e 600 euro come ha certificato la Corte dei Conti. Come affrontarlo? Ripartendo dalla prevenzione e dalla sorveglianza che, a mio avviso, dovrebbero essere garantiti sul territorio attraverso le case della salute e gli ospedali di comunità. Inoltre, il nuovo Dpcm che definisce i nuovi Lea, individua tre grandi livelli di cui uno è proprio quello legato all’assistenza distrettuale cioè alle attività, ai servizi sanitari e sociosanitari diffusi sul territorio come quella specialistica ambulatoriale”.

La pandemia ha colpito gli anziani. L’attuale sistema sanitario genera spesso diseguaglianze. Anche in questo caso le case della comunità potrebbero essere la soluzione per i centri minori e rurali, ovvero la maggioranza del territorio molisano?

“Assolutamente sì, attraverso la telemedicina e il telemonitoraggio ad esempio, che consentono di far ‘viaggiare’ le informazioni piuttosto che i pazienti. Tante belle parole rimaste però nel libro della burocrazia molisana, come l’appalto pubblicato a febbraio 2018 di 49 milioni e 610 mila euro per prestazioni infermieristiche, riabilitative, socio sanitarie, medico specialistiche, strumentali e di telemedicina, previste nell’ambito del servizio di cure domiciliari di cui non si ha notizia”.

Una migliore offerta di servizi per la qualità di vita può invertire il trend dello spopolamento e invecchiamento in atto con ricadute per il prossimo sviluppo sostenibile del Molise?

“Di certo potrà incidere ma non potrà da solo invertire la curva dello spopolamento che è depauperamento della nostra regione e del Sud Italia in generale. Oggi c’è tanto clamore intorno all’idea di dover nascere in Molise mentre il vero problema è restare, rimanere, viverci. Se non si creano quelle condizioni – strade, ferrovie, opportunità di lavoro, riprogrammazione del Pil di questa regione, i servizi in pratica che non abbiamo – che consentiranno alla regione di crescere e guardare al futuro, siamo destinati lentamente a sparire. Non siamo i soli a vivere questo fenomeno demografico che potrà trovare una soluzione anche attraverso la riscoperta del senso di comunità che è cosa diversa, e pure parecchio, dallo sterile campanilismo”.

Siamo verso la fine del secondo mandato. Cosa accadrà a Patrizia Manzo? Tornando indietro avrebbe percorso la strada battuta dal collega Antonio Federico?

“È opportuna una premessa: dopo la laurea, nonostante le opportunità lavorative, ho scelto di tornare e restare per mettere a disposizione della mia terra le mie competenze. Mi reputo una persona abbastanza fortunata perché ho trovato occupazione presso l’ufficio studi e ricerche di Unioncamere, impegno attinente al mio percorso di studio. Un lavoro che mi ha permesso di analizzare il tessuto economico, sociale e occupazionale della mia regione. Tuttavia osservavo che la politica, nelle sue scelte programmatiche, non si affidava nelle valutazioni e nelle decisioni alla sistematicità della statistica e delle scienze che potevano aiutarla a scegliere la strada migliore. Il periodo era maturo perché una nuova forma politica potesse nascere ed affermarsi. Il Movimento 5 Stelle, in tempi non sospetti quando eravamo in dieci davanti ad un banchetto e i sondaggi ci davano sotto al 3%. Ho dovuto scegliere. Lavorare per il Molise senza che la politica prendesse alcuno spunto dai numeri e dalle statistiche oppure provare a cambiare le cose dall’interno. E così ho accettato la sfida, ho perso il mio lavoro per diventare operaia dei molisani, rinunciando fin dall’inizio ad una parte dell’indennità – che oggi ammonta ad oltre 300mila euro – per destinarla ad iniziative come
“Facciamo Scuola”, la Banca della Terra diventata legge, le azioni a sostegno del microcredito e tante proposte rimaste nei cassetti chiusi della maggioranza. Oggi sono al secondo mandato, pronta a qualsiasi nuova sfida che abbia sempre come obiettivo il bene dei cittadini intesi non come elettori ma come concittadini. Fare politica non significa  necessariamente vestirsi da politico, si possono affrontare le problematiche che la realtà ti pone davanti e quindi le scelte politiche da compiere anche fuori dai palazzi. Come ho fatto prima di essere eletta. Sicuramente oggi ho acquisito una esperienza importante che mi può aiutare a spiegare le dinamiche e le criticità dell’azione politica. Il know how che ho acquisito potrà essere messo a disposizione di chi mira a fare politica e che non ha mire da politico. Tornando indietro? Rifarei le stesse scelte, senza dubbio: ho avuto l’onore di incontrare, in questo mio percorso, tante professionalità che operano in Regione che, con l’esempio della loro abnegazione, hanno rafforzato in me il valore delle Istituzioni insegnandomi come muovermi nella prassi politica nel pieno rispetto della sacralità di quella che è la nostra casa, il Consiglio regionale”.