di Miriam Iacovantuono

“Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”.

Così scriveva Cesare Pavese. E tanti sono quelli che hanno deciso di andarsene via per svariate ragioni, consapevoli del fatto che quel paese è lì ad aspettarli. Una lontananza fisica di tanti che ha anche delle ripercussioni sul paese stesso, che a un certo punto, anche a causa dell’emigrazione, non riesce a soddisfare più quelli che sono i bisogni primari, come la salute, l’istruzione, il lavoro. Ed è così che l’individuo si trova costretto a fare una scelta. Giuseppe Melillo, antropologo ed esperto di sviluppo locale, afferma che si tratta quindi di una scelta individuale.

“È chiaro che i paesi nascono per soddisfare dei bisogni, non nascono per la bellezza del posto. Ogni volta la nascita dei paesi, lo sviluppo o la loro morte è determinata da fattori economici e di geopolitica. I paesi offrono il soddisfacimento dei bisogni primari. Rimanere è una restanza – come dice Vito Teti – di carattere consapevole, di tipo emotivo, sentimentale o addirittura politico. È una scelta di resistenza. E’ quindi una scelta individuale e non è più collettiva”.

Scelte che pur essendo individuali hanno portato nel tempo anche a una trasformazione dei paesi stessi e molto spesso sono state condizionate anche da scelte istituzionali. E’ evidente che delle scelte sbagliate ci sono state e sono quelle che hanno dimenticato le zone più rurali del Paese, privilegiando i grandi centri. In virtù di questo, quindi, è giunto il momento di andare verso un riequilibrio delle varie componenti dell’Italia, con politiche specifiche e differenziate in base ai territori. Se fino a questo momento le scelte istituzionali sono andate verso un profitto, è arrivato il tempo di cambiare rotta.

“Quando lo Stato ragiona su un rapporto di economia viene meno a quella che è la sua funzione di
Stato e di tutela di cittadini e viene meno ai dettami costituzionali, perché ogni cittadino deve essere
uguale, che si torvi al centro della grande città o che si trovi nella periferia più isolata”.
Dunque, se pur vengono fatti dei ragionamenti macro si dovrebbero poi spacchettarli in azioni micro a
tutela, in egual misura, di tutto il territorio e di tutti i cittadini. Un esempio potrebbe essere quello
dell’industrializzazione di alcuni territori che non erano adatti ad avere una industria, quando, invece, si
sarebbe potuto puntare su altro.

“C’è stato il grande bluff , negli anni ’80, dell’economia adattativa, cioè le industrie che arrivavano in alcuni territori dicendo che si creava economia. Tutto il territorio si adattava a una economia che non gli apparteneva e quando quel flusso finanziario decideva che quel posto non era più buono prendeva e andava in un altro luogo. Non si è ragionato sull’economia locale, sull’auto-sussistenza che poteva diventare fonte di economia all’esterno, ma si è portato dall’esterno un’economia di processi economici industriali, lavorativi, che hanno in qualche modo fatto abbandonare quelle che erano le forme di micro economia, di sussistenza, che inquadrati in un certo livello, potevano essere anche fonte di economia per tutto il territorio e dare la possibilità alle famiglie di rimanere e di conseguenza di non far venire meno i servizi per una questione numerica”.

A questo punto, cosa potrebbe succedere? Mettiamo un cancello con un lucchetto che ne decreta la
chiusura definitiva o nei periodi più morti dell’anno o ci potrebbe essere una soluzione affinché i paesi
delle aree più marginali possano continuare a vivere? La risposta a questi interrogativi non dipende solo
da quella che sarà la scelta degli abitanti, ma senza dubbio dalla lungimiranza di chi decide le sorti del
Paese.

“Se non c’è un grande piano per i paesi come è stato il piano anticovid, questi paesi saranno ammazzati dal virus dello spopolamento. Come c’è stato un grande impegno per evitare la diffusione del virus covid, bisogna combattere il virus dello spopolamento. Lo si fa non popolando, ma fare in modo che le persone decidano di rimanere e per rimanere devono trovare i servizi. Non si può immaginare che i Comuni siano svuotati di dipendenti, che non ci siamo farmacie, scuole”.

E siccome l’Italia è un Paese dove oltre la metà del territorio è area interna e quindi costituito da paesi, bisogna tener conto delle tante identità e fare delle politiche mirate affinché possano continuare a vivere e i cittadini possano scegliere di restare.

“I paesi hanno il diritto di vivere ma non è un diritto acquisito, non è un diritto per nascita. E per conquistare il diritto a vivere bisogna imporsi insieme ad altri paesi affinché ci siano delle politiche legate alla non depauperazione dei territori, immaginando sempre però che l’Italia è un paese fatto di frane, di terremoti”.

E poi alle scelte mirate si dovrebbe unire una classe politica locale all’altezza e lungimirante che guardi al futuro con lo scopo di non voler far scomparire il proprio paese, ma che voglia invece rilanciare il proprio
territorio.

“Ci devono essere politiche nazionali che si devono incrociare con la capacità, con la visione di chi governa i territori anche piccoli e di poter immaginare che quel territorio ha qualcosa da offrire. Perché se c’è una visione macro, molte volte la visione micro dai territori non viene”.

Devono esserci, dunque, più attività e azioni che convergono verso lo stesso desiderio. Bisogna prendere
consapevolezza che un territorio ha qualcosa da offrire, ma capire come metterlo al meglio, come renderlo funzionale per gli abitanti del territorio accompagnati da delle politiche di governance nazionale.

“Bisogna capire se un paese è un luogo che ha un costo o un valore. Se decidiamo che hanno un costo devono morire, se hanno un valore, come tutte le cose che hanno valore, devono essere valorizzate, però con azioni che abbiano il senso reale della parola valorizzazione e non con azioni spot”.

Dunque, i paesi delle aree interne non sono destinati a morire. Affinché, però non scompaiano bisogna far
coincidere azioni e attività e questo dipende anche da una determinata formazione culturale.