di Miriam Iacovantuono

Nuovi stili di vita in quelle aree montane o cosiddette marginali è possibile immaginarli. È possibile immaginare nuovi modi di vivere, nuovi modi di fare comunità. Ci può essere così un cambio di rotta anche per quel fenomeno che si sta radicando sempre più in queste zone e che è lo spopolamento. Michela Zucca, antropologa e direttrice responsabile dell’Associazione Sherwood, da diverso tempo si occupa di progetti di sviluppo sostenibile in aree rurali e marginali, dove però sostiene che è possibile immaginare di poter restare o tornare.

“Teniamo conto di una cosa importante, adesso stiamo vivendo un’emergenza ambientale e sanitaria che sempre più porterà a diventare le aree alte, le aree montane favorite per la semplice ragione che sarà possibile fare autoproduzione, che sarà l’unico modo di uscire dalla crisi ambientale. Questo poi consentirà anche di vivere un po’ “più liberi” dal punto di vista sanitario”.

Dopo una crisi sanitaria come quella che stiamo vivendo e che sta avendo ripercussioni anche in altri ambiti, le zone marginali potrebbero essere favorite per condurre degli stili di vita diversi, più “salutari”. Ma è evidente che bisogna essere consapevoli di questo e chi decide di restare o andare a vivere in un piccolo paese deve essere consapevole e culturalmente preparato a quello che sarà il proprio stile di vita.

“Dobbiamo pensare al ritorno alla vita nei piccoli paesi con autoproduzione e decentramento produttivo e questo vuol dire lavorare in loco come succedeva una volta. La stessa cosa vale per la scuola. La chiusura delle pluriclassi ha prodotto dei risultati sconvolgenti dal punto di vista della parità dell’istruzione, nel senso che i bambini delle elementari che sono costretti ogni giorno a farsi tanti km, di fatto perdono affezione alla scuola e hanno una probabilità di completare un iter di studi 1 a 17 rispetto ai bambini che vanno a scuola normalmente. L’unica cosa da fare è riorganizzare le pluriclassi e quando non si riesce con lo Stato, bisogna organizzare le scuole parentali, cosa che si sta già facendo in molti posti. Secondo me noi possiamo pensare a un ritorno alle aree interne solo sulla base della autorganizzazione e autoproduzione. È importante che la gente che torna nelle aree interne, in un paese di montagna
deve capire che deve organizzarsi con il lavoro collettivo per la cura del territorio e per la sua produzione, non può pretendere di vivere come in città”.

La maggior parte delle persone che vivono nelle zone montane, non ha mai potuto fare a meno della componente fisica del lavoro e questo ha portato allo sviluppo dell’equilibrio tra lavoro mentale e lavoro fisico che ha portato alla cura e al mantenimento del territorio. Un equilibrio, che però nel momento in cui è saltato ha intensificato il fenomeno dello spopolamento.

“Quello che noi dobbiamo fare, anche come operatori culturali, è cercare di ristabilire questo equilibrio e far vedere, in maniera pratica, che il sapere slegato dal lavoro e dalla cura del territorio ha portato soltanto disastri. Quindi dobbiamo fare un passo indietro”.

Bisogna quindi ripartire dalla cultura del lavoro fisico e non solo mentale. Bisogna ripartire dal territorio, dalle comunità di quel territorio. Bisogna ripartire dalle persone e da quella che è la restanza.

“Dobbiamo imparare a restare su un territorio e questo significa per esempio evitare spostamenti inutili, il che vuol dire imparare a vivere da quello che il territorio ci dà. Se questo è possibile almeno per quanto riguarda il cibo e il combustibile, dobbiamo imparare a farlo anche per altro, perché la restanza è anche l’organizzazione della socialità e della cultura”.

E proprio attraverso una visione diversa delle cose, attraverso un cambiamento culturale è possibile una rigenerazione comunitaria in queste zone marginali del Paese.

“Il cambiamento culturale è faticoso però è necessario. Chi vuole stare in area interna deve capire che deve cambiare culturalmente”.

Bisogna superare l’individualismo e tessere delle reti all’interno della propria comunità e con quelle delle zone vicine. Bisogna imparare a prendere dall’altro e mettersi insieme per poter fare, per autoprodurre ciò che diventa beneficio per se stessi e per gli altri. Alla base quindi si può leggere quello che è il concetto della condivisione. Un ritorno alle aree montane e marginali è possibile laddove si riesce a vincere una scommessa, quella culturale e dove si è convinti che l’autoproduzione e l’autorganizzazione possono portare a un cambio di passo.