di Miriam Iacovantuono

Pochi abitanti, pochi servizi, poche risorse e tanto scoraggiamento, sono queste le espressioni che troppo spesso descrivono i piccoli comuni e in particolare quelli delle aree interne. Ma davvero è tutto perduto e per questi luoghi non si può fare più nulla? Il futuro di questi luoghi potrebbe essere legato anche a delle figure professionali che agiscono con lo scopo di rispondere alle esigenze, ai dubbi della popolazione per una riattivazione della comunità.

È questo il ruolo del community manager, un professionista che va a vivere in un determinato paese e all’interno della comunità analizza, studia, connette, instaura relazioni e fa partire dei processi. Un professionista che segue uno schema metodologico che è quello di arrivare in un luogo, ascoltare gli abitanti, stabilire relazioni, chiarificare man mano, essere flessibile. Si tratta dunque di un attivatore di risorse esistenti e responsabile dei percorsi partecipativi per avviare una progettualità di medio e lungo periodo. Un professionista che lavora in collaborazione con la comunità a cui restituisce competenze, ma soprattutto metodologiche. Una figura esterna che aiuta alla partecipazione della collettività. A svolgere questo tipo di lavoro è Silvia Di Passio che con la società cooperativa Sardarch sta lavorando a diversi progetti.

“Il mio lavoro è su richiesta e questo secondo me è importante, perché quando un’amministrazione pubblica, che è il mio principale committente, decide di fare un intervento di sviluppo locale attraverso anche una riattivazione sociale è un grandissimo punto di partenza. Quando io intervengo, a seconda di quello che il Comune decide debba essere la priorità, cerco di capire se quello che chiedono corrisponde ai reali bisogni e desideri del territorio e questo lo faccio attraverso interviste, analizzando i dati del comune, ma soprattutto attraverso un approccio informale che avviene soprattutto nei bar e nei diversi luoghi del paese, quindi a contatto con le persone”.

Un lavoro e un approccio che permette di capire l’animo del paese e quelle che sono le potenzialità di quel territorio e della comunità.

“La complessità del mio lavoro è dovuta al fatto che tutto si basa sulla partecipazione volontaria delle persone e questo significa che costantemente bisogna lavorare su relazioni di fiducia, sull’ascolto attivo e sulle relazioni”.

Una figura dunque che dà il giusto valore alle relazioni e che dall’esterno mette in contatto le amministrazioni con le persone del paese. Un occhio esterno che riesce a far vedere anche cose che potrebbero essere scontate, attivare anche un senso di appartenenza e di responsabilità a che possa riuscire a superare il demandare agli altri quello che invece ognuno potrebbe fare per la propria comunità e per il proprio territorio. Il community manager crea le condizioni necessarie affinché le persone di un paese siano consapevoli che possono fare politica e creare il bene comune. È quindi una figura che sta già funzionando all’interno di diverse comunità della Penisola, ma che però andrebbe istituzionalizzata.

“Collaborando con Officina Giovani Aree interne della SNAI – Strategia Nazionale delle Aree Interne – attraverso le 15 proposte che abbiamo consegnato alla Ministra per il Sud Mara Carfagna, ho lavorato per inserire la proposta sul riconoscimento della figura del community manager”.

Una figura che dall’esterno potrebbe andare a smussare anche delle diatribe che potrebbero esserci all’interno di una comunità o tra comunità limitrofe e che aiuti in qualche modo a superare l’individualismo e il campanilismo, andando a riconnettere un i luoghi o le persone che senza motivo si fanno la lotta. E se l’attenzione da parte della politica è ancora bassa quella mediatica va a favore di chi partecipa a progetti e percorsi che così si sentono appartenenti a qualcosa. A tal proposito un progetto su cui Silvia sta lavorando come community manger riguarda la felicità.

“Dobbiamo ricominciare a capire e studiare il fattore felicità come un fattore generativo trainante per rimanere in un posto e attirare nuove persone contro la logica della narrazione fantasmagorica dei borghi – una parola che nei paesi non usa nessuno – . Mi sono resa conto che tanti giovani vogliono andare via non solo perché non c’è lavoro, ma perché non sono felici, perché nella città e altrove immaginano una possibilità di felicità. Da qui ho iniziato una ricerca studiando quali sono i fattori della felicità e capire quanti di questi sono presenti nei paesi e su cosa bisogna lavorare. Attraverso un questionario che è ispirato all’European Social Survey stiamo capendo che i ragazzi vogliono sentirsi attivi per essere felici, vogliono avere la possibilità di aiutare gli altri, di essere connessi nelle relazioni sane, di sentirsi attivi fisicamente e mentalmente e di essere consapevoli delle proprie risorse. Insomma, stiamo studiando quali sono i motivi della felicità per loro, perché questi posti possono essere luoghi felici”.

Una professionalità che può dare valore alle comunità e al territorio delle aree interne affinché le persone riconoscano le proprie potenzialità e quelle del loro luogo di appartenenza e si mettano in relazione tra di loro. Una figura che fa capire che servono politiche generative capaci di creare nuove prospettive e che per lo sviluppo locale bisogna partire da una risorsa importante che è il capitale sociale.