di Miriam Iacovantuono

Proiettare uno sguardo attento e critico verso i territori più marginali dell’Italia, aiuta a comprenderne le criticità e ancora di più se queste si toccano con mano ogni giorno. Bisogna dunque, avere una visione obiettiva. Cucire idee e soluzioni introno a un territorio che non si conosce, probabilmente può non essere fruttuoso per queste zone e potrebbe alimentare una falsa speranza per le sue comunità. È necessario forse un nuovo approccio che parta da una rigenerazione culturale che potrebbe così portare alla rigenerazione del territorio e anche a una rigenerazione comunitaria.

Fabrizio Ferreri, sociologo territorialista, evidenzia che spesso l’elaborazione intellettuale, critica e progettuale è sganciata dal vissuto e dall’orizzonte interpretativo di chi vive il paese.

“Per il rilancio vero dei paesi, dei piccoli comuni, di ciò che complessivamente possiamo chiamare aree interne, è certamente necessario lavorare sulla dotazione di servizi e sulla creazione di opportunità materiali, concrete, tangibili. Tutto questo è assolutamente necessario, ma non sufficiente”.

Dunque, è necessario lavorare anche su una dimensione più profonda e immateriale che interroga i valori
e le rappresentazioni dominanti. Quei valori e quelle rappresentazioni che oggi assegnano alla città una centralità che va ben oltre i servizi e le opportunità che le città offrono e che poi portano alla perdita di attrattività verso tutto ciò che città non è. Concentrarsi così su una riflessione più profonda e immateriale. Su un immaginario che possa delineare nuovi elementi oltre a quelli tangibili e fondamentali come le infrastrutture, i servizi, il lavoro.

“L’immaginario, per me, è un defibrillatore necessario: rigenera orizzonti di senso, (individuali ma) non particolaristici, in connessione con i giacimenti di valore del luogo. È quindi la radice indispensabile per nuovi radicamenti (“nuovi” non solo in quanto riferiti a nuovi abitanti, “nuovi” invece soprattutto rispetto a chi già vive nei paesi ma se ne sente distante). Lavorare sull’immaginario, dal mio punto di vista, è uno dei sensi fondamentali di un’espressione oggi tanto diffusa, di cui però spesso sfuggono i contorni: lavorare sull’immaginario vuol dire esattamente rigenerazione culturale, dove la cultura non è un settore tra gli altri, ma è l’elemento generativo di quella coscienza di luogo che produce riconoscimento del luogo, di sé nel luogo e nelle tante comunità che lo abitano. Generando questo triplice riconoscimento, l’immaginario riattiva quella coscienza di luogo indispensabile per produrre radicamento”.

Quello che manca in questi territori è anche la coscienza di luogo che si fa poi fatica a ricostruire.

“Potremmo anche portare il lavoro, i servizi e le infrastrutture in questi luoghi, ma senza una forte e salda coscienza di luogo non attecchiranno, non produrranno nulla, saranno magnifiche operazioni che aggiungeranno nulla a nulla, ma a costi altissimi. Un borgo con il wi-fi e con maggiori e più efficienti servizi essenziali è certamente un borgo più vivibile, ma non è per questo automaticamente un borgo più desiderato. Una buona infrastruttura senza anima continua a girare a vuoto”.

E lavorare dunque sull’immaginario, secondo l’analisi che fa Fabrizio Ferreri, potrebbe portare le aree interne ad uscire da una condizione di minorità. In questo modo le zone marginali, le comunità delle aree interne potrebbero far valere il loro diritto di esistere.

“Lavorare sull’immaginario significa leggere la propria condizione di ancillarità e subordinazione non come un destino; implica quindi che se ne comprendano le cause, le ragioni (storiche, profonde) e il rapporto di stringente connessione con un determinato modello economico e culturale di sviluppo. È un processo, nella sua pars destruens, di demistificazione e insieme, nella sua pars costruens, di presa di coscienza attiva”.

Bisogna dunque uscire dagli schemi, dalle contrapposizioni, dalla retorica e dall’interpretazione che fino ad ora si è data sulle aree interne dove scelte e decisioni troppo spesso sono state calate dall’alto.

“La questione delle aree interne viene per lo più affrontata secondo un paradigma meramente aziendalistico. Si pensa di poter mettere a posto il paese come si metterebbe a posto un’azienda che non funziona. Dal momento però che il paese non è un’azienda, questo genere di approccio non ha alcun effetto, anzi, certamente, aggrava la situazione”.

E proprio per questo il discorso della partecipazione diventa molto importante e lo è ancora di più la partecipazione di chi molto spesso non viene coinvolto come i giovani, gli anziani o quelli con un livello culturale più basso. Per questa partecipazione è però necessaria una alfabetizzazione culturale, civica, relazionale. Un cambio culturale.

“Occorrerebbe lavorare prima di tutto su questa dimensione. Occorrerebbe considerare la comunità non come qualcosa che possa essere ingegnerizzato. Il paradigma aziendalistico è sempre riduzionistico: lavora non sulla comunità reale, ma su una sua proiezione artificiale (sempre parziale e interessata)”.

In questo modo, e quindi lavorando sull’immaginario, è possibile re-intregrare le diverse componenti della comunità locale, prendere coscienza della realtà e da qui, comprendendo le ragioni del presente e proiettandole nel futuro, arrivare anche a un nuovo e diverso sviluppo.

“Vi è bisogno di ripensare quei luoghi, che un determinato modello economico e culturale ha posto al margine, abbandonato o ridotto a riserve da sfruttare. Un simile ripensamento non può essere operato in astratto: impegna a una strategia locale e molecolare, punto per punto, ognuno con le proprie specificità, nel segno di una miriade di pratiche singolari, contestuali, non accentrate, mosse da motivazioni immanenti e non da programmi centralizzati astratti e globali, dove l’impegno situato (place-based) configura alternative, produce nuovi possibili, moltiplica e interseca tra di loro le traiettorie locali. Lavorare sull’immaginario è tutto questo”.

E così per arrivare all’obiettivo finale è necessario riconnettere luoghi e coscienza, esercitare un nuovo protagonismo decentrato e una nuova responsabilità nei confronti del territorio.

“Per fare questo serve abbandonare sin dall’inizio l’idea che questi processi procedano secondo uno schema lineare, fino in fondo governabile. Serve soprattutto abbandonare la convinzione che questi processi seguano i modelli teorici e pratici degli studiosi da cattedra, degli intellettuali accademici, dei progettisti seriali. I paesi spesso sono bloccati, come intorpiditi, chiusi in un sopore che schiva i colpi netti del cambiamento. Occorre che ogni paese sia attraversato da uno shock. Lo shock il più delle volte arriva da fuori, ma non produce smottamenti se non viene progressivamente incorporato. Lo shock arriva da fuori anche quando a portarlo è un abitante del luogo, che deve farsi antenna di visioni altre, capaci di rompere i meccanismi spesso sclerotizzati che immobilizzano i paesi”.

Dunque, per una nuova visione delle aree interne è necessario attivare processi di rigenerazione culturale,
connessi a una partecipazione reale delle comunità che possa infine concretizzarsi in una nuova governance territoriale.