di Mariano Faenza

La poesia è l’ultimo baluardo della resistenza contro la rassegnazione, contro la bruttezza. Roberto Vecchioni non è semplicemente un cantautore. È un poeta che, alla soglia degli ottant’anni, si scopre anche filosofo riflettendo sul senso della vita con lo sguardo di chi ne ha conosciuto il successo ma anche, ipse dixit, il fango: “Negli anni ottanta sono finito col culo per terra. Faticavo a trovare spazio nel mondo dello spettacolo”.

Non rassegnarsi. E questo emerge con forza, durante lo spettacolo, come un robusto filo logico che lega Giacomo Leopardi alla celebrazione della vita di ognuno. Per Vecchioni, il Poeta è innamorato dell’esistenza, della vita. La rilettura dell’opera del marchigiano è infatti uno degli aspetti più interessanti del suo ultimo lavoro che si intitola appunto “L’Infinito”.

“Leopardi non era un pessimista, era solo triste. Aveva la malinconia dell’innamorato respinto”. È questa la teoria che il cantautore milanese sostiene dal palco del teatro Savoia. Avrebbe voluto vivere, condurre un’esistenza non dissimile da quella dei suoi coetanei. Fu solo sfortuna la sua. La malattia che gli faceva sembrare una siepe come un ostacolo insormontabile dietro il quale si celava il senso dell’esistenza che a lui era precluso.

Da queste riflessioni, Vecchioni prende spunto per sostenere che bisogna cercare la bellezza perché in questa risiede il senso stesso della vita. E perché attraverso essa si scorge l’infinito aldiquà della siepe. Nonostante tutto.