di Miriam Iacovantuono

Ci sono luoghi dove non c’è (quasi) più nessuno, il silenzio la fa da padrone. Le strade che una volta erano un dolce via vai di bambini, giovani, adulti e anziani oggi rispecchiano la situazione da cui sono stati connotati nel tempo diversi piccoli paesi delle aree interne: l’abbandono.

Sono i paesi che Anna Rizzo, antropologa culturale, descrive nel suo ultimo libro “I paesi invisibili.
Manifesto sentimentale e politico per salvare i borghi d’Italia” edito dal il Saggiatore, che ha dedicato a chi in questi luoghi ci abita tutto l’anno. Un volume, infatti che vuole essere una sorta di documento e che vuole prendere per mano chi questi paesi vuole salvarli. Ci si immerge nel volume come in un diario di campo, nella documentazione e nelle osservazioni sulle disuguaglianze sociali e di genere che vivono i paesani in questi paesi, che lei definisce invisibili, quelli più marginali e lasciati da parte per troppo tempo e che tornano “in voga” attraverso una spettacolarizzazione.

Nel suo racconto Anna Rizzo fa scoprire al lettore qualcosa di sconosciuto, che non viene raccontato e che rimane lì tra quelle mura umide di case diroccate, tra le strade dissestate, tra le lacrime e le risate della gente che è rimasta. È la sua esperienza. L’esperienza di chi ha toccato con mano, ha parlato e vissuto con la gente con cui ha condiviso momenti di gioia e di sconforto. Di chi è diventata parte integrante di una comunità per cui è possibile scrivere un nuovo domani.

Un susseguirsi di esperienze che lei racconta mettendo in evidenza tutto quello che servirebbe per salvare questi posti lasciati al loro destino. Un racconto oggettivo anche di un passato che forse in questi posti non è mai passato e da dove nel tempo molti sono andati via e la mancanza di servizi li ha fatti rimanere indietro.

Nelle parole, che leggendo il volume appassionano il lettore, si percepisce la considerazione che l’autrice ha di questi luoghi, con un proprio valore e una propria identità, luoghi di cui avere cura per leggerli in profondità.

Andare dunque, al di là della narrazione che si è fatta fino ad oggi delle aree interne che

“bisognerebbe percorrerle a piedi, lentamente, e avvicendarsi nelle storie dei paesi e degli abitanti […] Abitare in un luogo significa condividere con i residenti un periodo di convivenza, sperimentare le loro stesse condizioni di vita, abitare con loro, guadagnarsi da vivere – non arrivare e partire nell’arco di pochi giorni”.

Troppo spesso infatti molte parole, forse anche poco oggettive, hanno descritto questi luoghi senza
disegnare la giusta realtà delle cose, mentre il libro di Anna Rizzo mostra la vita reale di questi piccoli paesi e che solo chi la vive ogni giorno conosce realmente. Sa cosa significa lavorare in smartworking alla ricerca di una connessione stabile, di vedersi garantito il diritto all’istruzione o alla salute a km di distanza dalla propria residenza, percorrere strade precarie e non avere l’ufficio postale nel proprio paese.

Superare tutto questo e molto altro significa salvare questi paesi e farli tornare visibili. Andare oltre gli spot propagandistici fatti di contenuti non verificati e affrontare la dimensione materiale del riabitare che deve portare a scegliere se rimanere o tornare.

Anna Rizzo, con una sottile critica descrive e spiega in maniera chiara e oggettiva la “distorsione” di
alcune parole – resilienza, cura, prossimità, abbandono – che, soprattutto nel periodo post pandemico, sono state usate a caso e non rispecchiano il significato reale del termine. Perché poi, come evidenzia bene l’autrice, ogni paese ha la sua chiave di lettura che va cercata anche nel contatto diretto con le comunità, con i paesani, in quella dimensione umana che fa conoscere e fa vivere la complessità di un luogo e delle dinamiche relazionali di quel luogo.

È per questo che il volume vuole essere un manifesto, un’ancora di salvezza che accompagna ad avere un’altra visione delle cose. Azioni coordinate con una progettualità che non venga calata dall’alto, ma che interpelli la comunità e i paesani, a cui bisogna dare ascolto, perché sono loro i migliori sociologi delle loro realtà. Sono la stella polare, che può aiutare a trovare la giusta via da percorrere e capire cosa manca per poter intervenire il prima possibile.

E l’autrice, proprio a conclusione, disegna una speranza legata ad un futuro fatto di giovani.

“Bisogna lavorare sull’immaginario scaturito dallo studio delle aree interne e analizzare ciò che le nuove generazioni stanno mettendo in atto, ricostruendo lo spazio e il linguaggio della democrazia, dei saperi e dell’arte, perché è da quello che si può partire . Ciò che è stato custodito sotto forma materiale o intangibile potrebbe essere la scintilla che stiamo cercando”.