Sono 31 (24 ospedali e 7 consultori) le strutture sanitarie in Italia con il 100% di obiettori di coscienza per medici ginecologi, anestesisti, infermieri o OSS. Quasi 50 quelli con una percentuale superiore al 90% e oltre 80 quelli con un tasso di obiezione superiore all’80%. È quanto emerge dall’indagine aggiornata di Chiara Lalli, docente di Storia della Medicina, e di Sonia Montegiove, informatica e giornalista, per il libro “Mai Dati, Dati aperti (sulla 194) – Perché ci servono e perché ci servono per scegliere”.

La ricerca ha evidenziato ciò che la Relazione ministeriale non fa emergere, pubblicando i dati chiusi e aggregati per Regione. Inoltre l’ultima Relazione del Ministero della salute, presentata al parlamento lo scorso anno, si riferisce ai dati definitivi relativi al 2019.

“L’indagine Mai dati – si legge su Il Sole – ci dice che la valutazione del numero degli obiettori e dei non obiettori è troppo spesso molto lontana dalla realtà”, dichiarano Chiara Lalli e Sonia Montegiove. “Dobbiamo infatti sapere, tra i non obiettori, chi esegue realmente le IVG (in alcuni ospedali alcuni non obiettori eseguono solo ecografie, oppure ci sono non obiettori che lavorano in ospedali nei quali non esiste il servizio IVG, e quindi non ne eseguono). La percentuale nazionale di ginecologi non obiettori di coscienza (che secondo la Relazione è del 33%) deve, dunque, essere ulteriormente ridotta perché non tutti i non obiettori eseguono IVG. Non basta conoscere la percentuale media degli obiettori per regione per sapere se l’accesso all’IVG è davvero garantito in una determinata struttura sanitaria. Perché ottenere un aborto è un servizio medico e non può essere una caccia al tesoro”.

L’indagine di Lalli e Montegiove evidenzia come l’ultima Relazione sulla stessa legge del Ministero della salute e i dati in essa contenuti, relativi al 2019, restituiscono una fotografia poco utile, sfocata, parziale di quanto avviene realmente nelle strutture ospedaliere del nostro Paese. Di fatto, sia il ritardo nella presentazione, sia gli indicatori e le modalità di pubblicazione dei dati (chiusi e aggregati), rendono la relazione un’osservazione passiva e neanche tanto veritiera della realtà.

Questo si traduce in un mancato miglioramento.