di Alessandro Matticola

 

Negli anni ’50, alla fine della guerra, in letteratura e successivamente nel cinema, si è sviluppato il movimento del Neorealismo. Gli autori raccontavano la vita e le vicende di tutti i giorni, dell’Italia del dopoguerra, facendo parlare e recitare i protagonisti: contadini, pescatori, gente comune che vive la sua vita.

Poi arrivarono i reportage. I problemi e la vita quotidiana diventarono il tema principale dei grandi giornalisti, dando vita tra gli anni ’60 e ’90 a grandi servizi – se così si possono definire, ma sarebbe troppo riduttivo – che raccontavano il progresso ma anche i lati oscuri della vita quotidiana.

E infine fu la volta dei documentari. I problemi passarono letteralmente “in seconda serata” per fare spazio alla natura e alla scienza, al buio, di notte dove non si vedono. Fino a quando, piano piano, iniziarono a sparire dalla circolazione.

Questo fino all’avvento, negli ultimi anni, delle docu-serie, dove la moda delle sere tv si è unita alla voglia di tornare a raccontare alcuni aspetti anche scomodi del mondo di oggi.

L’ultima di queste serie, prodotta dalla Netflix e distribuita lo scorso 30 dicembre ci riguarda da vicino. E riguarda una pagina di storia chiave della società italiana contemporanea. Soprattutto, una storia “scomoda” dove non è facile capire chi sia il colpevole e chi il carnefice, né da che parte stare.

“Sanpa – Luci e Tenebre di San Patrignano”, è una docu-serie neorealista. A parlare sono i personaggi che hanno vissuto in prima persona quella storia. Non tutti i protagonisti, ma quasi, quelli che hanno fatto parte della sua nascita e della prima parte della sua vita, compreso il fondatore della nota comunità di recupero per tossicodipendenti Vincenzo Muccioli, scomparso nel 1995 molto probabilmente a causa dell’Aids, anche se la causa ufficiale rimane l’epatite C.

La storia di San Patrignano è una storia molto controversa e scomoda e come tale, come accade di solito in Italia purtroppo, invece di raccontarla si è finito per metterla nel dimenticatoio. Salvo poi che il lavoro di Cosima Spender e Gianluca Neri, durato ben 3 anni, riportasse alla luce quella pagina che è stata fondamentale nella lotta alla tossicodipendenza in Italia.

Fine anni ’70, 1978 per l’esattezza. La droga è un problema che non esiste in Italia: se vuoi “farti” sono affari tuoi. Se ti beccano ti portano in ospedale, ti danno due gocce e ti rimandano a casa. Le comunità che si occupano di questo problema si contano sulle dita di una mano e sono legate principalmente al mondo cattolico.

In un borgo distante qualche chilometro da Rimini, Coriano, l’imprenditore Vincenzo Muccioli nel novembre 1978 accoglie in casa sua il primo tossicodipendente di quella che diventerà una delle realtà più importanti nella lotta alla tossicodipendenza e che, nel giro di un decennio, arriverà a contare migliaia di persone: la comunità di San Patrignano.

Muccioli non usa farmaci. Muccioli usa la dignità, fa leva sul senso della vita delle persone che arrivano li. Affronta il problema dando loro un’alternativa alle droghe. Li mette all’opera, gli dà un lavoro, dona loro un senso, un motivo per alzarsi la mattina, li fa sentire parte di una famiglia, non li lascia da soli.

Il tutto per iniziativa personale. Lo stato non ci mette una lira, non si pone il problema perché negli anni ’70 il problema non sussiste. E allora, Muccioli ha carta bianca, può fare ciò che vuole.

Ed è proprio quel “fare ciò che si vuole” a fare la differenza. Fino a che punto volere bene ad una persona vuol dire avere libero arbitrio sulla sua vita, soprattutto se non può badare a sé stessa?

Di tutto questo ci si inizia ad interrogare quando qualcosa inizia a non andare bene nella comunità. Vengono denunciati i primi maltrattamenti, le famose ma oramai dimenticate catene, fino ad arrivare alle morti sospette, dove c’era il sentore che in una comunità cresciuta non troppo in fretta ma rapidamente, le cose stavano sfuggendo di mano.

A questo punto si creano due fronti. Da un lato l’opinione pubblica, dall’altro le famiglie vittime della tossicodipendenza. Al centro i protagonisti ed intorno l’Italia intera che, vuoi o non vuoi, era entrata a far parte di quella realtà. Su San Patrignano prendono posizione personaggi come Indro Montanelli, Enzo Biagi, Maurizio Costanzo, Paolo Villaggio, Red Ronnie, fino all’attuale Assessore Regionale alla Sanità della Lombardia Letizia Moratti, attualmente principale finanziatrice della comunità, insieme al defunto marito Gian Marco. E con loro tanti altri volti noti dell’Italia degli anni ’80 e ’90.

La storia, come ho detto, viene narrata in prima persona dai protagonisti di quel periodo. Non ci sono i Moratti, ma c’è il figlio di Muccioli, i suoi aiutanti, coloro che gli sono stati vicino, che hanno vissuto i drammi sì, ma anche i successi e le gioie di quei primi anni. Un altro esempio dell’impegno di Muccioli: la nascita dell’ospedale interno alla comunità e la ricerca sull’AIDS, pagina anche quella che ha delle ombre, ma resta l’impegno di fronte ad un problema all’epoca ignorato ancor prima che sconosciuto.

Ma se la critica ha accolto favorevolmente la serie prodotta da Netflix, non è stato così per la Comunità di San Patrignano e per altri suoi ex ospiti, che hanno definito il racconto fuorviante e parziale, incentrato quasi esclusivamente su Muccioli e poco sull’intorno, sul contesto in cui tutto è iniziato e si è sviluppato.

“Sanpa” racconta una pagina che si è cercato di dimenticare nella nostra storia. Una storia dove, a meno che non si abbiano le idee molto chiare, non è facile decidere da che parte stare e puntare il dito contro il carnefice designato.