di Greta Rodan

Nel 2017 una proposta di Legge, a firma di tre deputati, chiedeva la modifica del comma 2 dell’articolo 609-septies del codice penale, relativamente al tempo massimo per denunciare uno stupro. In quel momento, questo tempo era quantificato in sei mesi, trascorsi i quali il reato veniva prescritto.

La proposta di legge chiedeva di prolungarlo a dieci anni, in considerazione della difficoltà della vittima di denunciare tale devastante crimine e del percorso individuale necessario per elaborare questo lutto dell’anima, trovare la forza di parlare. In Gazzetta Ufficiale si legge che il termine è stato poi portato a soli 12 mesi. Il reato di violenza sessuale soltanto nel 1996, con la legge del 15 febbraio n.66 passò dall’essere un reato contro la morale al diventare un reato contro la persona, permettendo alla società civile di compiere un primo passo nella direzione del riconoscimento della sua gravità e della devastazione cui conduce la vittima, una sorta di omicidio, tanto che nel Regno Unito è assimilato alle colpe per cui è previsto l’ergastolo. Successive modifiche, fino alla legge “Codice Rosso” entrata in vigore ad agosto 2019, hanno meglio regolamentato pene e procedure processuali, ritenendo per esempio, la più grave fattispecie della quale all’articolo 609 octies del codice penale, la violenza sessuale di gruppo, un reato plurisoggettivo a concorso necessario.

Restano però quei 12 mesi. Dodici mesi. A qualcuno potrebbero sembrare tanti “una lo saprà se è stata violentata, a che le servono dodici mesi per decidersi?”, eppure dodici mesi sono pochi, pochissimi. Dopo una violenza che ti ferisce irreparabilmente corpo e anima, per la quale si prova, spesso, un senso di vergogna, una volontà di cancellare, dimenticare, derubricare a “non è successo niente”. Ma quella, la ferita, si ripresenta, ti tormenta, i ricordi non spariscono, erano solo messi in un angolo, e riemergono, impietosi, dopo mesi, dopo anni, incancellabili.

Il prendere coscienza, l’elaborazione, il superamento qualche volta di un senso di colpa paradossale ma reale come una scarpa, tanto che lo si indossa, ci si cammina, lo si porta a fare le cose di ogni giorno. Dodici mesi. Sono pochi. Anche se qualcuno, uno che si spera sia un caso isolato nell’universo tutto, ritiene che sia molto strano che una ragazza abbia denunciato uno stupro di gruppo dopo otto giorni e che quindi non sia vero nulla, che quella ragazza ha inventato tutto e era consenziente.

Uno a cui la democrazia dà diritto di parola e eco. Ma la democrazia muore e si rivela inefficace ogni volta che a qualcuno, in questo caso a un comico, un politico, un “papino preoccupato”, si concede il diritto di ledere la dignità altrui, di sentenziare su un dolore, di difendere per sangue ed incoscienza, offendendo non solo la presunta vittima (“presunta” solo per dovere) ma tutte quelle che ogni giorno combattono per capire se debbano o no denunciare e che non devono sentirsi dire che farlo dopo otto giorni è strano, perché sarebbe, ed è, ficcare un coltello in una ferita già aperta e giocare a vedere come sanguina. Non è democrazia. È ulteriore orribile violenza.