di G.R.

La storia di Ginevra Amerighi e di Arianna, che racconteremo presto, non è solo una storia di cattiva giustizia. Questa definizione sarebbe incommensurabilmente piccola rispetto al dolore, alla disperazione, al torto peggiore che si possa fare, non tanto e non solo a una mamma, ma a una bambina. A un essere umano minuscolo strappato al luogo più sicuro del mondo, le braccia di una Madre. È la storia di una battaglia e di una forza che non è nemmeno terrena, di una voce dall’altra parte del telefono che ancora, non si sa come, e nonostante una stanchezza profondissima, riesce a lottare. Dieci anni di dolore.

IL RACCONTO

Sono 10 anni che ripeto nel sonno gli stessi identici incubi, ripercorro durante la notte tutta la sofferenza e gli eventi traumatici. Vedo sfilare addosso ai miei anni tutte quelle maschere apatiche e indifferenti di giudici assistenti sociali e psicologi, burattini senza anima, tutti mostri che si nutrono del loro stesso odio, che passano sui loro prigionieri avanti e indietro come un rullo, mentre resisti e non ti pieghi perché sei ancora viva. Incubi anche se era stata una bella giornata, anche se mi ero addormentata tra le braccia e le carezze di chi mi ama.

Ero abituata al mio stagno della notte, mi ci immergevo ormai da un po’ di tempo, consapevole di ciò che ci avrei trovato. Ma in questa melma entrano sempre nuovi aguzzini. La mia mente vorrebbe trovare un ordine, dare un senso e una spiegazione a ciò che è stato. Rivederla una volta dopo dieci anni di oblio e poi mai più; comunicare qualche volta dopo, attraverso uno schermo come due alieni nello spazio, controllate a vista da psicologhe e telecamere, per poi non poterla sentire più. Sapere che a lei hanno detto che se cercherà di comunicare con me di nascosto verrà deportata in casa famiglia e a me che lei non mi vuole neanche più sentire.

L’ ho cercata ogni notte nelle stanze della casa dove abita senza trovarla mai. L’ho cercata come una ladra per tutti questi anni senza trovarla mai. In alcuni incubi mi era concesso di trovarla per qualche istante e vederla dormire dentro a un lettino, piccola piccola, in mezzo ai suoi riccioli biondi. È faticoso addormentarsi, dormire, svegliarsi. Non vedo l’ora che sia domani. Sono felice quando non ricordo gli incubi. Ma il giorno è sempre disturbato dall’inconscio anche se la luce non ti fa vedere e nasconde un po’ il tormento che si muove dentro. È un serpente che si nasconde di giorno e la notte mi divora.

Tu che mi hai dormito accanto mi dici che ho urlato nel buio. Cosa? Cosa ho detto? Chiamavi Arianna.
Non ricordo. Dev’essere vero, ho le lacrime secche ancora addosso. Hai urlato il nome “Arianna”.
Sì ho un annebbiato ricordo che scivola via. Ora che me lo dici lo trattengo un attimo: lei scappava, era di spalle, andava via, mi odiava dello stesso odio di chi ci ha separate e io la chiamavo senza rincorrerla per non farla cadere. Le lasciavo libera la strada senza intralciare il suo percorso che ormai è lontano da me da quello che eravamo, che siamo e che non saremo mai.