di Miriam Iacovantuono

I versi di una poesia donano energia alla vita. Raccontano le sensazioni del proprio cuore. Descrivono le gesta di ogni uomo, di ogni lavoratore e tracciano il percorso di un’intera esistenza e si uniscono al lavoro della terra. Ed è così che, in un Molise che può essere allo stesso tempo periferia e centro del mondo, c’è chi ha trovato la sua dimensione anche con un lavoro che potrebbe sembrare antico, ma che passato non è, e disegna i tratti di un futuro che unisce tradizione e modernità. In un angolo di questa terra, tra le alture di Castel del Giudice in provincia di Isernia, Carmine Valentino Mosesso al suo essere contadino ha unito il suo estro di poeta. Una poesia che è tipica di chi è a contatto con la terra ogni giorno.

“È il contatto con la terra a fare di un uomo, molto spesso, una persona silenziosa, una persona solitaria che fa dell’introspezione una delle sue pratiche quotidiane. È proprio il contatto con la terra, con le stagioni, con il silenzio che c’è intorno ai fili d’erba, che c’è intorno alle foglie che fa vivere normalmente la condizione di agricoltore, di contadino, di pastore. Ho conosciuto molti pastori e molti contadini che attraverso la tradizione orale mi hanno insegnato filastrocche, novelle, racconti, tutta questa tipologia di un linguaggio non trascritto”.

Il lavoro del contadino, che viene portato avanti da centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo, con Carmine, che pratica questo mestiere dopo aver conseguito una laurea in Agraria, si unisce a quello di poeta. Attraverso i versi racconta, disegna, trasmette tutte le sensazioni, le emozioni, i sentimenti più profondi che questo lavoro, il contatto con la terra, con gli animali, provocano.

“Con me forse si traduce in poesia, con altre persone questa meravigliosa faccenda si traduce in silenzio, molto spesso, in qualcosa che non diventerà mai un racconto, mai una poesia, mai un testo. Però credo che la poesia sia nata con i contadini, con i pastori, con questi uomini di vento, questi uomini di silenzio. Il mio rapporto è quello di cercare di trascriverlo e farlo diventare verso”.

Con la pacatezza di chi ha trovato la sua dimensione, di chi, immerso nella natura è riuscito a realizzare un sogno, Carmine racconta che quello che lo ha orientato a frequentare la facoltà di Agraria a Campobasso è stata la volontà di capire meglio i meccanismi basilari, quello che c’è dentro la fotosintesi, dentro una foglia, o quello che avviene nelle radici, nell’apparato radicale, per mettere meglio le mani solo dove è necessario e quando è necessario, perché sostiene che il rispetto passa anche da questo.

“La differenza tra il contadino del principio e quello del mondo industriale, è che oggi, nonostante la scienza e nonostante tutto, ogni passaggio si fa quasi sempre senza prendere in considerazione il rispetto e la terra è presa un po’ come una fabbrica. Il problema è che la terra continua a essere il nostro unico collante con il presente e con il futuro e il non portare rispetto significa non portare rispetto a se stessi e alle generazioni che verranno”.

Una diversa percezione di questo lavoro dunque porta a pensare che ci sia un forte divario tra la terra, il mondo dell’agricoltore e del contadino, e la modernità di oggi. Ma in realtà l’analisi che fa Carmine, che è legato visceralmente alla terra, evidenzia che non ci si è mai allontanati. E anche se c’è un distacco fisico e di percezione, ogni giorno si è dipendenti dalla terra.

“La distanza è simbolica e il riavvicinamento passa dal riavvicinamento alle persone che la frequentano. Io invece di scegliere l’etichetta, quotidianamente scelgo il viso, la mano, l’identità che c’è dietro a un prodotto e la storia di chi coltiva. E questo può essere il riavvicinamento della modernità al mondo contadino. Un riavvicinarsi alla filosofia che muove le mani”.

Un riavvicinamento che senza dubbio è possibile anche in Molise, dove negli anni l’agricoltura è stato il sostentamento per molte famiglie e potrebbe esserlo ancora anche per le generazioni che verranno.

“Il riavvicinamento più grande può passare dalle opere di affiancamento e bisogna partire dall’esperienza quotidiana. Ci sono infatti delle comunità maestre che hanno saputo fare e hanno saputo indirizzare la propria comunità verso quella che è un’attività virtuosa che può essere legata al turismo, all’agricoltura. È così che immagino il futuro del Molise e dell’Italia interna. Chi nel tempo ha saputo portare avanti una politica precisa e ha saputo concretizzarla in azioni è arrivato il tempo che si sieda dietro la cattedra e ci insegni. Se c’è una comunità che per esempio è stata in grado di unire l’identità alla tecnologia e penso alle filiere corte che si aprono intorno ai mulini, ai grani, ai mulini di comunità, ai grani del futuro, potrebbe essere da esempio anche per il Molise. Penso che questo sia uno scenario concreto e cantierabile da subito, senza inventarci nulla anche perché l’identità è fatta di questo. Noi la ricerca più grande potremmo farla sulla nostra identità. Senza memoria oggi non si va avanti”.

Ed è così che si potrebbe concretizzare quella che Vito Teti ha definito la restanza e che per Carmine è come una religione. È il restare con gli occhi del cambiamento e portare il cambiamento con gli occhi e non guardare le stesse cose come se fossero passate, brutte, dimesse, invecchiate. È lo stesso restare in un territorio che Carmine mette al centro della sua poesia insieme alla cura dei campi, degli animali e al riscatto dei paesi dell’Italia interna e dei territori marginali. I versi del suo libro “La terza geografia” nascono a protezione di questo mondo contadino e per far sì che resti prima nell’immagine e poi nella sostanza.

“Il mondo contadino c’è sempre stato anche durante il periodo industriale, la civiltà contadina è ancor quella che alimenta il mondo perché lo sostiene e alimenta le memorie, la storia, la civiltà e qualsiasi nostro legame con la terra, perché è ancora la terra che ci sostiene. La terza geografia è quindi la protezione di questo mondo e siccome la poesia è nata per stare nella bocca delle persone, nella lingua delle persone, credo che se riusciamo a scrivere qualche buon verso facciamo in modo che questo non scompaia”.

E il titolo del volume, che nasce da una divisione autarchica, indica come terza geografia quella delle
intimità.

“C’è una prima geografia che è quella che vediamo con gli occhi, fatta di fiumi, di montagne, di colline, di confini delimitati dall’entità geografiche, la seconda è quella misurabile, calpestabile, fatta di distanze, autostrade e poi c’è la terza che è quella che di noi nessuno conosce, del perché riconosciamo la nostra casa, del perché è la nostra casa, del perché un luogo ci suggestiona e un altro meno”.

L’invito che Carmine fa, soprattutto ai giovani, è quello di vedere la terra come un qualcosa che deve assolutamente uscire dall’anonimato, che appartiene a ognuno di noi come tutte le cose preziose e da cui non ci si può sottrarre. Di ancorarsi dunque a ciò che per molti è solo passato e antico e vederlo con lo sguardo che è proiettato verso il futuro.

“Per me la tradizione oggi è modernità, la tradizione è frutto della memoria e la memoria non è qualcosa che appartiene alla stasi, ma che appartiene al moto, all’esercizio. Come la terra la memoria va coltivata, anche perché con una generazione, con due generazioni le cose sarebbero uscite. Se tutti come noi, se tutte le persone che hanno abitato questa terra avessero praticato una sorta di dimenticanza, tutto, qualsiasi forma di conoscenza, sarebbe uscito dall’immaginario collettivo. Se tutti avessero fatto come noi che lasciamo i paesi, abbandoniamo la voce dei nostri nonni e diamo per scontato che le cose si conoscano, del mondo non conosceremo quasi niente”.

E il riferimento è a Linneo che diceva “se non conosci il nome, muore anche la conoscenza delle cose” per questo non bisogna guardare la terra come passato, ma come presente.