di E.S.
Sulla legge 194/78 è in corso una diatriba che, spesso, assume carattere politico e non mero tentativo di tutelare le donne. A questo, poi, si aggiungono considerazioni che destano perplessità.
Bisogna tornare indietro di qualche giorno, poco dopo la metà di maggio. È stato presentato a Roma un rapporto sui costi dell’applicazione della legge 194, commissionato dalla Società Italiana per la Bioetica e i Comitati Etici, dalla Fondazione il Cuore in una Goccia, dall’AIGOC, l’Associazione Italiana Ginecologi Ostetrici Cattolici e da Pro Vita e Famiglia. La dichiarazione che ha generato scalpore è di Benedetto Rocchi, professore associato al Dipartimento di scienze per l’economia e l’impresa dell’università di Firenze. Nello specifico, l’osservazione del docente è stata sui costi di applicazione della legge 194.
È necessario “aprire un dibattito sui costi della legge. Mi colpisce che non sia mai stato fatto uno studio. I dati dimostrano tre fallimenti della norma: non previene l’aborto clandestino, crea problemi di salute pubblica e ha un impatto negativo sulla demografia” e ha concluso chiedendosi “perché continuare a finanziarlo con i soldi dei contribuenti?”.
A queste affermazioni si sono aggiunte quelle di Lella Golfo, ex deputata del Pdl e fondatrice e presidente della fondazione Marisa Bellisario, che attraverso una lettera su L’Avvenire ha lanciato una laica (crediamo le sfugga il reale significato, ndr) provocazione sulla legge 194/78: sospenderne per cinque anni l’applicazione.
Sembra assurdo ma l’ex deputata non si ferma qui proponendo di “vietare l’aborto per cinque anni, tranne in gravi casi di malformazione del feto o di violenza nei confronti della futura madre, semmai dando alle coppie che pensano di ricorrervi non un mancia ma un lavoro ed una casa”. Alla base della provocazione vi è la correlata tesi per la quale “la natalità è la nuova questione sociale universale e riguarda tutti, anche chi i figli non li ha voluti. Serve piuttosto comprendere tutti che il tema della natalità è urgente e basilare per invertire la tendenza e rimettere in moto l’Italia a partire dalla vita come ha detto papa Francesco”.
Torna così cocente ribadire, soprattutto in Molise dove il diritto all’aborto è messo nel dimenticatoio delle tutele, cosa sia la legge che il 22 maggio 1978 ha depenalizzato e disciplinato le modalità di accesso all’aborto.
In particolare:
causare l’aborto di una donna non consenziente (o consenziente, ma minore di quattordici anni) era punito con la reclusione da sette a dodici anni (art. 545),
causare l’aborto di una donna consenziente era punito con la reclusione da due a cinque anni, comminati sia all’esecutore dell’aborto, sia alla donna stessa (art. 546),
procurarsi l’aborto era invece punito con la reclusione da uno a quattro anni (art. 547).
istigare all’aborto, o fornire i mezzi per procedere ad esso era punito con la reclusione da sei mesi a due anni (art. 548).
La 194 consente alla donna, nei casi previsti dalla legge, di ricorrere alla IVG in una struttura pubblica (ospedale o poliambulatorio convenzionato con la Regione di appartenenza), nei primi 90 giorni di gestazione; tra il quarto e quinto mese è possibile ricorrere alla IVG solo per motivi di natura terapeutica.
L’art. 1 recita:
Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. L’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite. Lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle proprie funzioni e competenze, promuovono e sviluppano i servizi socio-sanitari, nonché altre iniziative necessarie per evitare che l’aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite.
L’art. 2 tratta dei consultori, una delle più grandi conquiste per il corpo delle donne.
E, in conclusione, è chiara la necessità di certa parte politica di voler correlare la crisi demografica (Italia invecchiata e senza figli) e la libertà di interrompere una gravidanza non voluta, in virtù della legge 194/78.
Per combattere la denatalità occorre ben altro. Per tutelare i diritti delle donne serve ben altro. In questo caso, e solo in questo, ciò che serve e che accomuna le due problematiche è non sbandierare sterile parole, ma azioni concrete.